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Quando l’immigrazione parlava calabrese
Bologna, anni ‘60, una scuola di quartiere e un giovanissimo immigrato: "E’ arrivato il marocchino, finalmente!", gli dicono accogliendolo in classe. Ma il "marocchino" di Calabria non si offende, perché non sa neppure chi è o cos’è un marocchino
Di Fulvio Santagata, gennaio 2001
Siamo un paese che ha faticato molto ad accettare e ad accogliere la sua immigrazione interna, dal sud al nord, dalla Puglia e dalla Calabria a Torino, destinazione Fiat, ma anche a Milano, a Bologna. Immaginarsi la fatica che facciamo, a trent’anni di distanza, a non rifiutare ragazzi che arrivano dal Marocco, dalla Tunisia, dall’Albania. La storia si ripete: "non si affittano case ai meridionali", c’era scritto nei condomini dei quartieri popolari di Torino, ora non c’è scritto "non si affitta a marocchini e tunisini", perché siamo diventati più eleganti, ma la sostanza è la stessa. E tante storie, allora come ora, finiscono in carcere: i ragazzi più giovani, nelle carceri italiane, oggi arrivano dall’Africa o dall’est europeo, ma le carceri sono anche piene di uomini che hanno cominciato la loro "carriera" di delinquenti quando erano ragazzini, emigrati dal sud, dal "nostro" sud, nelle periferie delle grandi città del nord. Ci piace allora raccontare, accanto alle vicende di tanti giovani immigrati stranieri, anche le loro storie, che sono storie tutte di casa nostra: di quando gli immigrati parlavano calabrese o pugliese.
Una tranquilla giornata invernale, il sole tiepido ancora ci permette di giocare fuori coi calzoncini corti. In Calabria il clima è mite, l’inverno può considerarsi come la primavera del nord. E’ il 1962, siamo in attesa di nostro padre che ha già accompagnato parte della nostra famiglia proprio al nord, a Bologna. Siamo rimasti con la nonna, i miei tre fratelli ed io. I nostri discorsi evitano di affrontare l’argomento della partenza, ma sappiamo, senza dircelo, che dispiace a tutti andar via. Mio fratello più grande ha 12 anni, il secondo 10, io 6 ed il più piccolo solo 4 anni. Ci sediamo a tavola per mangiare qualcosa prima di partire, arriva in quel momento mio padre, fa le porzioni, si siede con noi e ci fa fretta poiché il treno partirà nel giro di qualche ora. Prendendo alla lettera ciò che ci ha detto, ricordo, ho mangiato d’un fiato il mio piatto di spaghetti ancor prima che la nonna mi mettesse sopra il sugo… occasione, questa, per farci un’ultima risata. Poi i preparativi, le valige (le "mitiche" valige di cartone) stipate all’inverosimile, legate con lo spago da pacchi, nodi alla marinara, come piaceva dire a nostro padre, una grande busta di cotone contenente tutto quanto occorreva al sostentamento durante il viaggio, enormi ruote di pane casereccio, qualche soppressata, qualche etto di mortadella, un po’ di formaggio, un buon fiasco di vino e qualche bottiglia d’acqua. Ci viene a prelevare nostro zio con la sua seicento multipla, carica tutto, un po’ sul tettuccio un po’ incastrato tra noi nell’abitacolo, e andiamo alla stazione. Guardando da quello spicchio di finestrino che mi è concesso, mi vengono quasi le lacrime agli occhi vedendo passare i volti dei miei amici che, sapevo, non avrei più rivisto, guardavo quei luoghi a me familiari e mi immaginavo cosa poteva aspettarmi là, dove mio padre mi stava portando, sapevo già allora che nulla avrebbe potuto competere col "bello" che mi stava toccando lasciare ed ero triste, molto triste anche quando si rideva tutti insieme delle battute che si facevano riguardo all’eldorado che ci prospettavano... Il treno, affollatissimo… Ci siamo sistemati sul pianerottolo appena dopo la scaletta, seduti sulle valige e sui cartoni, parecchia gente intorno a noi era in piedi, guardavo gli occhi degli altri ragazzi che come me seguivano i desideri dei loro padri, tristi anche loro, ma ridevano, come me e con me, perché il gioco lo imponeva. Dopo non so quanti chilometri, né quanto tempo, siamo riusciti ad appropriarci di uno scompartimento, così abbiamo potuto sistemarci un po’ meglio. Mia nonna ha cominciato a tirare fuori il pane ed il companatico, mio padre ha aperto il suo coltello a serramanico e con dovizia particolare, come fosse il migliore dei chirurghi, ha cominciato a far fette come se venissero fuori dall’affettatrice, una fetta di mortadella, una fetta di provola un paio di fette di soppressata, la nostra cena. Ogni boccone masticato coi ricordi di quanto lasciavamo dietro le spalle, già quello scompartimento era un mondo nuovo. Fuori dalla porta si scorgevano volti di persone sconosciute, si sentiva parlare una lingua diversa, l’atteggiamento della gente, poi, non era il solito con cui avevo avuto a che fare fino a quella mattina. Tristezza nel mio cuore, anche se sapevo che quel viaggio mi avrebbe condotto da mia madre e dalle mie tre sorelle che erano partite quasi un mese prima. La voglia di riabbracciare mia madre mi fece addormentare che ancora dovevo finire il panino… poggiando la testa sul finestrino e guardando le luci che mi correvano incontro ricordo di aver sognato un mondo fantastico dove eravamo tutti riuniti a giocare e a mangiare, tutti, la mia famiglia e i miei amici che sapevo ormai lontani. Il viaggio durò più di ventiquattro ore, man mano che ci avvicinavamo al nord, il freddo si faceva sempre più intenso, la nonna tirò fuori dei maglioncini per coprirci un po’ meglio, ma i pantaloncini rimasero corti, in quanto proprio non ne avevamo di lunghi. Era gennaio del 1962, non ricordo un inverno più freddo di quello, la neve aveva preso il posto del verde, il paesaggio ai miei occhi era stupefacente, non avevo mai visto la neve. Mio padre mi prendeva in giro perché ne avevo troppo paura, per me era qualcosa che mi nascondeva tutto quello che conoscevo meglio, la natura, gli alberi, le case, e il treno con la sua velocità rendeva ancora più difficoltoso, per me, realizzare dei punti di riferimento in mezzo a quella distesa accecante. Arrivammo a Bologna nel tardo pomeriggio di una gelida giornata di gennaio, c’era ad attenderci un signore, amico di mio padre, che con la sua seicento era arrivato quasi sotto lo sportello del treno. Io rimasi sul predellino della scaletta a guardare le operazioni di carico di tutto quanto ci eravamo portati dietro, poi salirono i miei fratelli e mia nonna, ma quando avrebbe dovuto toccare a me, mi attaccai al passamano del treno e urlando dissi che non volevo andare da nessuna parte, che non sarei andato in mezzo alla neve, c’era letteralmente mezzo metro di neve, ed io, se non ricordo male, arrivavo a superare quella misura solo per qualche centimetro. Mio padre fece per un attimo la voce grossa, credendo che stessi facendo i capricci, poi, quando si rese conto che effettivamente se mi fossi buttato giù sarei stato sommerso dalla neve, venne e mi prese in braccio e mi pose in macchina. Un freddo bestiale e la sensazione di non poter più vedere il sole è il primo ricordo che ho di Bologna. Il signore che guidava la macchina, parlando con mio padre, lo metteva al corrente di quanto era avvenuto durante la sua assenza, tranquillizzandolo al riguardo delle nostre sorelle e di nostra madre, mentre noi dietro ci tenevamo stretti e cominciavamo a valutare il nuovo posto dove avremmo dovuto vivere. La macchina si fermò davanti al portone di un vecchio palazzo, un paio di colpi di clacson e dopo poco ecco materializzarsi nell’androne nostra madre con la più piccola in braccio, dietro di lei le altre due bambine che si tenevano aggrappate alla sua gonna e sbirciavano impaurite la scena di noi che uscivamo dalla macchina tutti anchilosati e stanchi del viaggio. Appena scesi ci infilammo immediatamente dentro al portone dove nostra madre ci abbracciò e ci bacio parecchie volte prima di lasciarci salutare le nostre sorelle. E subito venimmo a saper, da loro, che si stava male, che il posto non era bello come quello che avevamo lasciato. Che i bambini che c’erano non volevano avere a che fare con noi, che ci chiamavano "marocchini", perché venivamo dal sud. Cominciammo a salire una rampa di scale, poi un’altra rampa, poi ancora e ancora scale, cinque piani e dopo l’ultimo piano una rampa di scale in assi di legno e la soffitta: ecco la nostra abitazione. Ricordo che mio padre e mia madre dovevano camminare leggermente curvi per potersi muovere. Il tetto era a spiovente su tutti e due i lati, solo nel mezzo loro potevano stare diritti sfiorando ugualmente con la testa l’architrave che sorreggeva il tetto. Appena dentro sulla sinistra una cucina economica appoggiata su una pila di mattoni, nel centro della stanza un tavolato che serviva da poggia cose, ma che al momento del desinare diventava la tavola dove mangiare. Più avanti una porticina che si apriva in una stanza un po’ più piccola con il letto grande dei miei genitori, attorno un paio di culle per le sorelle più piccole, un’altra porticina dava accesso ad un’altra stanza dove c’erano un letto per mia nonna e tre letti per gli altri cinque figli, due a due i maschi ed uno piccolino per mia sorella grande. Sopra di noi si apriva un abbaino che ci dava la visione del cielo plumbeo di quei mesi invernali. Al centro della stanza una stufa a carbone che sfiatava dall’abbaino leggermente aperto. Mangiammo qualcosa di caldo, dopo mia madre e mia nonna cominciarono a preparare i letti e gli scaldaletto. Prendevano la brace dalla stufa, la mettevano nello scaldaletto che poi ficcavano dentro ad un letto, qualche minuto per togliere freddo ed umidità e subito ci si infilava sotto, poi un altro e così nel giro di poco tempo eravamo tutti sotto le coperte. Parlando con mio fratello, che dormiva con me, ricordo quanto ci era sembrata strana tutta la procedura, ma quanto caldo faceva sotto le coperte, poi dopo un po’ cominciammo a risentire freddo e non riuscivamo a darci pace per ciò che avevamo lasciato, il caldo tepore del clima calabrese. Ci ripromettemmo che appena possibile saremmo tornati in Calabria, anche se nostro padre non fosse stato d’accordo. Arrivò giorno, il primo giorno a Bologna. Mia madre ci prese e ci portò ognuno alla scuola a cui ci avevano assegnato, io facevo la prima elementare… entrai in classe e tutti sembrava aspettassero me, ero abbronzatissimo al loro confronto, naturalmente il primo commento che ho sentito è stato: "E’ arrivato il marocchino, finalmente!". All’inizio non mi arrabbiavo neppure, in quanto per me non poteva essere un’offesa, non sapevo neppure chi era o cos’era un marocchino, poi ci pensarono i miei compagni di classe a farmi capire bene che non poteva non essere un’offesa e così ho cominciato a fare a botte ogni volta che qualcuno si rivolgeva a me con fare sprezzante. E più cercavo di farmi rispettare e più nemici mi facevo, ma non me ne fregava nulla. Solo contro tutti. I primi giorni sono andati via su questa falsa riga, tornando a casa a mia madre dicevo che non mi piaceva stare a Bologna, alle sue domande più precise rispondevo però che a scuola andava tutto bene. Piano piano ho cominciato comunque a farmi apprezzare nonostante "l’onta" di essere meridionale e così si faceva gruppo con altri bambini per i giochi o per fare un po’ di cagnara durante la ricreazione… solo che io dovevo sempre dimostrare qualcosina in più degli altri, vuoi per recuperare una certa posizione nell’ambito del gruppo, vuoi, forse, perché ero un casinista di prima qualità. Sta di fatto, che tra una marachella e l’altra riesco a finire la prima elementare facendo una collezione di punizioni a casa e a scuola, che mi portano a fare la seconda elementare in collegio. Ma questa è un’altra storia.
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