Riusciremo mai a capire quanti sono i pentiti recidivi?

La legge Gozzini non ha nulla a che fare con la legge sui pentiti

Quella astuta abitudine di confondere le agevolazioni concesse a chi ha collaborato con i benefici di cui possono faticosamente usufruire i detenuti comuni

 

Qualche tempo fa a Pescara un uomo, colpevole di vari omicidi e altri reati, ma che godeva di una serie di privilegi perché collaboratore di giustizia, tra cui quello di lavorare fuori dal carcere per una cooperativa, ha ucciso il titolare di uno stabilimento balneare. Sul fatto si sono buttati giornali, televisioni, politici, per mettere sotto accusa il sistema che dà la possibilità, grazie alla legge Gozzini, ai detenuti, dopo alcuni anni di carcerazione, di cominciare a uscire dal carcere gradualmente con benefici come permessi premio e semilibertà. Un sistema che ha reso le carceri meno violente e più vivibili. Ci pare che nessuno abbia avuto il coraggio di dire che quell’uomo era fuori dal carcere, nonostante i gravissimi reati commessi, non per la legge Gozzini, ma perché era un “pentito”.

 

Ci vorrebbe più onestà nel dare certe notizie

 

di Sandro Calderoni, ottobre 2008

 

Cercare di dimostrare che molti di quegli episodi di detenuti che tornano a commettere reati, che destano particolare scalpore, non c’entrano nulla con la tanto bistrattata legge Gozzini, non è cosa semplice, dato che si deve fare i conti con molta cattiva informazione fornita dai media, incoraggiati spesso dalla mancanza di chiarezza di politici ed organi della giustizia.

Sono un detenuto di vecchia data e posso dire che già dalla sua nascita questa legge ha destato non poche controversie, tanto che si sono alternate costantemente chiusure e riaperture. Di fatto, questa legge permette a chi ha commesso reati, attraverso un percorso graduale, di reinserirsi nel tessuto sociale: non intendo dire che se uno usufruisce di questo “beneficio” abbia finito la sua condanna, intendo dire che questa legge permette di scontare la pena in modo diverso, più consono al concetto di reintegrazione nella società.

In questi ultimi tempi, questa legge sta subendo un attacco fuori dal comune, perché le vengono attribuite tutte, o quasi, le colpe dell’insicurezza che attanaglia questo paese. Però molto spesso a sostegno di questo attacco vengono avanzate argomentazioni che non hanno niente a che vedere con la Gozzini. Ad esempio si confonde la scadenza dei termini di custodia cautelare oppure la legge sui collaboratori di giustizia, con le misure alternative alla detenzione. In questo modo, giornalisti confusi e uomini politici distratti finiscono per far credere che tutti i reati commessi da ex-detenuti hanno a che fare con una legge, che invece non solo non ha colpe, ma anzi ha consentito a molti condannati di ricostruirsi una famiglia e trovare un lavoro, una volta finita la condanna.

Un esempio concreto, che io ho vissuto da vicino, anche se come semplice spettatore, è stato una grossa operazione di polizia fatta nel Veneto in cui erano coinvolte più di 140 persone, tutte imputate di traffico e spaccio di stupefacenti. Io ero in carcere e ricordo bene l’arrivo degli arrestati, e ciò che mi colpiva maggiormente era il continuo sfoltirsi di queste persone. Ne uscivano tutti i giorni perché chi ammetteva delle responsabilità o aggiungeva altri nomi alla lista degli accusati veniva subito rimesso in libertà in attesa del processo. Alla fine in carcere ne sono rimasti una trentina, tra chi non voleva e chi non poteva collaborare.

Dopo parecchi anni il processo è finito, ma quelli che erano usciti come collaboratori non si sono fatti nemmeno un giorno di galera per quel processo, e alla faccia del percorso di reinserimento graduale nella società, molti di loro sono stati ri-arrestati perché sono tornati a spacciare. Mentre quelli che non avevano collaborato, a distanza di dieci anni e più, stanno ancora scontando le loro condanne, chi in carcere e chi con brevi permessi o altre misure alternative, naturalmente dopo il percorso richiesto dalla legge Gozzini.

Quando penso a quello che è successo a Pescara, dove un ex-detenuto, collaboratore di giustizia, ha ucciso di recente il titolare di uno stabilimento balneare, rimango con l’amaro in bocca per la mancanza di chiarezza da parte delle istituzioni su questi argomenti, perché se si ritiene giusto pagare uno scotto per permettere alla giustizia di fare il suo corso dando delle agevolazioni a chi ha collaborato, è anche giusto, almeno per senso di verità, dire queste cose e non nascondersi e alzare il dito contro una legge che ha portato solo bene alla nostra società. E quello che ancor più irrita è come gli organi di informazione giocano su questa non chiarezza, privilegiando la strumentalizzazione della paura invece che limitarsi al puro racconto dei fatti di cronaca.