Il carcere tra riforme e controriforme

Dal 1975 a oggi, un detenuto ripercorre illusioni e delusioni di chi, dal carcere, ha visto alternarsi leggi garantiste a brusche e pesanti chiusure

 

di Sandro Calderoni, ottobre 2006

 

Tempo fa sono venuti a trovarci in redazione, per illustrare la loro proposta di legge di riforma dell’Ordinamento Penitenziario, i magistrati Alessandro Margara e Francesco Maisto. La loro è stata un’esposizione molto ampia e interessante, in cui mi sono sentito personalmente coinvolto soprattutto quando Margara ha ricostruito, con ricchezza di particolari e di riferimenti storici, il complesso succedersi di riforme, mini-riforme e… controriforme che sono state emanate in materia carceraria negli ultimi trent’anni, a partire dall’entrata in vigore dell’Ordinamento Penitenziario del 1975.

Questo disorganico e talvolta contraddittorio stratificarsi di leggi e di leggine - e in certi casi di improvvisati provvedimenti “d’emergenza” che poi sono durati anni, ammesso che non siano ancora in vigore - io l’ho vissuto per intero, dal di dentro e sulla mia pelle, perché ero in galera nel ’75, quando fu emanato l’Ordinamento, e in galera ci sono anche adesso, a trent’anni abbondanti di distanza. Credo perciò di poter offrire una testimonianza di parte ma attendibile su quali siano state e continuino a essere le ricadute psicologiche che questi trent’anni di garantismo a corrente alternata hanno prodotto sulla popolazione carceraria, piombandola in uno stato di cronica sfiducia nei confronti di qualsiasi nuovo provvedimento venga annunciato.

Mentre Margara ripercorreva con precisione cronologica le varie tappe attraverso cui si è giunti all’attuale normativa sul carcere, dentro di me rivivevo il loro succedersi attraverso le mie personali esperienze, ricordando con chiarezza e ancor viva partecipazione sia le attese che le spinte riformiste avevano sviluppato all’epoca fra noi detenuti, sia – e più ancora, purtroppo – le brucianti delusioni provocate in seguito dall’involversi di quello spirito riformatore in una prassi tutt’altro che garantista, basata perlopiù su provvedimenti emergenziali e sostanzialmente “purgativi”. Il mio stato d’animo, così, quella mattina altalenava in continuazione fra alti e bassi, risvegliando in me sia il ricordo della tanto effimera euforia suscitata dalle “aperture” quanto il profondo senso di frustrazione provocato dalle successive, immancabili “chiusure” di un processo di riforma che, in trent’anni, non ha mai saputo uscire da uno stato di sostanziale precarietà.

D’altra parte va detto – e lo stesso Margara l’ha chiaramente ammesso – che all’Ordinamento Penitenziario nel 1975 non si arrivò grazie a un preciso disegno politico riformatore sostenuto da una gran parte della classe politica e dell’opinione pubblica; ci si arrivò, praticamente, per forza maggiore, perché la situazione delle carceri italiane era divenuta insostenibile (istituti fatiscenti e sovraffollati, condizioni igieniche disastrose, evasioni all’ordine del giorno, frequenti e spesso clamorosi episodi di violenza fra detenuti e fra detenuti e agenti) e occorreva assolutamente disinnescare la “bomba” prima che esplodesse.

Pressata dagli eventi e dalla preoccupazione dell’opinione pubblica più avveduta, la classe politica dell’epoca seppe tuttavia rispondere a quella sfida con lucidità, emanando una riforma – quella appunto del ’75 – talmente innovativa da porre il nostro paese, che fino allora era stato in materia di legislazione sul carcere uno dei più arretrati d’Europa, un passo avanti rispetto a tutti gli altri. Uscendo dall’angusta logica della repressione fine a se stessa e puntando tutto sui concetti di rieducazione e di recupero sociale, l’Italia concretizzava finalmente in termini di legge quanto, quasi due secoli prima, aveva sostenuto in tema di delitti e relative pene il maggiore dei suoi pensatori illuministi, Cesare Beccaria.

Per quanto ben concepita e orientata, una legge però da sola non ce la fa a modificare la realtà. Tanto più se a smentire le sue buone intenzioni, e a renderle impopolari, sopravvengono emergenze politiche e sociali particolarmente gravi, che fanno prevalere la paura sulla ragione. E infatti la riforma del ’75 si impantanò, prima ancora di essere davvero decollata, nell’ondata di allarme sociale provocata dall’impennarsi proprio in quegli anni dell’attività terroristica. Nel rendere impopolari certi benefici che l’Ordinamento Penitenziario aveva appena concesso ai detenuti, come i primi permessi premio, certo concorse anche il fatto che più di uno di noi ne approfittò, dandosi alla fuga e commettendo nuovi reati; è fuor di dubbio, tuttavia, che fu essenzialmente il terrorismo – e il clima di “blindiamoli tutti” che aveva innescato – a svuotare di ogni autentico contenuto innovatore una riforma che, al suo nascere, aveva acceso tante speranze. E infatti non solo fu impresso agli istituti già esistenti un deciso giro di vite, ma vennero anche istituite nuove carceri di “massima sicurezza” in cui, in teoria, avrebbero dovuto essere reclusi soltanto i terroristi, ma che - in pratica - si affollarono ben presto soprattutto di detenuti “comuni”, i quali finirono per essere le vere “cavie da laboratorio” di un modo nuovo, ancor più repressivo, di intendere e di gestire la carcerazione. Stipate in spazi ristretti e stressate da controlli ossessivi, persone che spesso erano già di per sé delle “mine vaganti” esplosero in tutta la loro dirompente aggressività, dando luogo a un’escalation di violenze che finì presto per contagiare anche gli istituti cosiddetti “normali”.

 

L’arrivo della “Gozzini” e poi la “controriforma” del 1991

 

Questo stato di cose si protrasse fino al 1986, anno in cui fu varata la nuova riforma dell’Ordinamento Penitenziario, meglio nota come legge Gozzini. Ancora una volta la repressione fine a se stessa aveva mostrato la corda, e occorreva raffreddare l’esplosiva situazione carceraria ponendo mano a un insieme di norme capaci di rendere la galera non solo più vivibile, ma più educativa e socialmente utile. La legge Gozzini seppe andare alle radici del malessere carcerario, prefigurando non solo una detenzione più clemente e rispettosa dei fondamentali diritti della persona, ma anche una serie di organici interventi-ponte (permessi “di risocializzazione” e non più solo per gravi motivi familiari, articolo 21, semilibertà, affidamento in prova ai Servizi sociali) finalizzati a promuovere un rientro in società a pena scontata non traumatico, ma graduale e in qualche misura guidato.

Noi detenuti vivemmo l’avvento di quella riforma con entusiasmo, perché ci sentivamo finalmente coinvolti in un progetto che ci stimolava a tirare fuori il meglio delle nostre risorse e a guardare al futuro con maggiore serenità. Ma anche in quel caso le molte attese finirono ben presto per essere frustrate da una nuova, grave emergenza (la lotta alla mafia, questa volta), che ebbe l’effetto di indurre un nuovo, brusco retromarcia alla politica carceraria. Nel 1991 venne emanata infatti una legge che stravolgeva completamente lo spirito della Gozzini, escludendo del tutto dai benefici chi si era reso colpevole di alcuni crimini di particolare allarme sociale e prolungando i tempi d’accesso ai benefici medesimi per gli autori di altri, numerosi reati.

Non solo l’area dei benefici si restringeva notevolmente (in molti casi addirittura annullandosi), ma si infrangeva di fatto il principio della individualità del trattamento, che era stato uno dei cardini della legge Gozzini. A contare, e a determinare la “qualità” della pena, ora era soltanto il tipo di reato; ragion per cui se disgraziatamente venivi coinvolto anche marginalmente, e con responsabilità personali minime, in uno dei reati che prevedevano l’annientamento dei benefici o l’allungamento dei tempi necessari per potervi accedere, ti ritrovavi – e in effetti ancora ti ritrovi – catapultato nei circuiti chiusi della carcerazione “cieca”, quella che ti taglia fuori dal mondo senza offrirti neppure una finestra di comunicazione con la vita esterna per un lunghissimo periodo, o addirittura fino al termine della pena.

Da allora l’Ordinamento Penitenziario ha subito piccole ma costanti modifiche, che hanno finito per allontanarlo ulteriormente dal suo spirito originario, basato appunto sul carattere individuale della pena e del trattamento rieducativo. Ormai si ragiona praticamente soltanto in termini di tipologia di reato, e questo atteggiamento – che non tiene conto della singolarità di ogni persona, delle sue responsabilità ma anche delle sue potenzialità di recupero – viene rinfocolato ogni qual volta un fatto di cronaca particolarmente odioso o efferato scuote l’opinione pubblica, facendo prevalere la furia punitiva sul ragionamento e sull’oggettiva valutazione dei fatti. Il risultato è che le carceri di oggi, salvo rare eccezioni (le cosiddette “isole felici”, che poi davvero felici non sono, ma semmai soltanto “normali”), sono tornate a essere molto simili a quelle che la legge Gozzini si proponeva di “umanizzare”: buona parte dei detenuti non mette infatti il naso fuori fino al giorno della scarcerazione, e sono davvero pochi quelli a cui è concesso imboccare e percorrere con successo i percorsi di progressiva risocializzazione che costituivano il tratto più innovativo di quella riforma.

Peggio ancora, sta prevalendo una visione “statistica” del carcere e dei detenuti che vi sono reclusi, come si trattasse non di persone (che hanno sbagliato, ma che non per questo hanno perso la propria umanità) ma di numeri con un segno negativo sempre davanti. Sì, perché i detenuti non hanno volto né personalità, ma costano: e costano maledettamente caro. Oltre che una perdita sociale, costituiscono infatti una costante perdita economica, e ormai sono purtroppo sempre di meno coloro che capiscono (come capì Gozzini, e capiscono ora Margara e Maisto) che l’unico modo per far tornare i conti (o quanto meno per renderli socialmente utili) consiste nel recuperare il maggior numero di detenuti possibile, e non certo nel costruire sempre nuovi e più arcigni recinti in cui ingabbiarli senza speranza.

Tornando a quella mattina in cui Margara e Maisto sono venuti in redazione a spiegarci il loro progetto di riforma, ricordo con grande ammirazione la generosità umana e professionale del loro impegno. Ricordo però anche, e mi dispiace dirlo, che il mio entusiasmo era velato da una specie di frustrazione preventiva, perché in questi ultimi trent’anni di vita - buona parte dei quali vissuti dietro le sbarre - ho già visto troppe volte finire in nulla le più buone intenzioni. La mia critica non è volta certamente a Margara e Maisto, sia chiaro: ho infatti il massimo apprezzamento per il loro lavoro, e gli auguro con tutto il cuore di riuscire a condurlo in porto. La mia critica riguarda soltanto la maledetta, sfibrante altalena delle aperture e delle chiusure che si sono succedute nell’arco di questo trentennio, e che ora costringono a essere scettico anche chi, in cuor suo, non vorrebbe essere scettico per niente.