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Riuscire a conciliare gli affetti con i ritmi e lo stress della vita in semilibertà è compito arduo
Di Sandro Calderoni, gennaio 2003
Parlare di pene alternative per uno che ne ha trasgredito le regole non è un compito facile, perché mi ritrovo combattuto tra la testardaggine di quelle presunte ragioni, che poi mi hanno portato di nuovo al punto di partenza, e l’opportunità e la fiducia che le istituzioni mi hanno dato per permettermi di stare accanto ai miei cari, svolgendo un’attività lavorativa con la speranza di rientrare gradatamente nella normalità e nella quotidianità del vivere esterno. Ripassando i momenti dell’attesa di quel beneficio, in cui ero disposto ad accettare qualsiasi restrizione pur di avere il modo di stare con le persone che amo il più possibile e al di fuori delle strutture alienanti, per chi ha degli affetti, che il carcere concede, ricordo che, quando lo ottenni, tutte quelle restrizioni, quei paletti imposti a chi è concessa una misura alternativa, mi sembravano poca cosa in confronto al dono che avevo ottenuto, e la determinazione che mettevo per rimanere nei parametri concessi era stoica. Inizialmente mi pareva anche di riuscire a equilibrare i tempi per rimanere fuori con il lavoro e la cura dei miei affetti senza particolari problemi. Invece poi i problemi, che quando sei fuori si susseguono incessantemente, non riuscivo a risolverli con i ritmi imposti dal trattamento rieducativo. Per me era come riemergere dallo stato di torpore che la lunga detenzione ti trasmette, e trovarmi "inadeguato": i tempi concessi si accorciavano, le giornate non erano più quelle a cui ero abituato, si erano come dilatate, e di conseguenza era una corsa a ostacoli per rispettare i tempi previsti nella misura alternativa, con i discorsi lasciati a metà, perché il tempo non permetteva di concluderli, la necessità di trascurare una parte degli affetti per non tralasciare gli impegni lavorativi, o viceversa. Insomma, ero diventavo un robot, programmato a muovermi in un determinato tempo per determinati motivi, e sempre il primo pensiero era quello di non trasgredire a tutte quelle regole che poi, confrontate con la realtà, assumevano aspetti veramente contrastanti… Perché se è vero che il reinserimento deve essere graduale, è anche vero che questa gradualità deve progredire in modo costante, nel senso che, se nei primi tempi gli obblighi possono essere tassativi, un po’ alla volta dovrebbero essere previsti maggiori spazi e possibilità. Di fatto, mi venni a trovare in uno stato di frustrazione e d’impotenza, e non riuscivo ad affrontare finanziariamente ed affettivamente i problemi che, man mano che il tempo passava, sorgevano davanti a me. Cercare di far coincidere economicamente le mie necessità con quelle familiari diventava oneroso, tanto che nella maggior parte dei casi dovevo rivolgermi di nuovo ai miei cari, che già in questi lunghi anni avevano pesantemente contribuito al mio mantenimento, per avere un sostegno, dato che lo stipendio che percepivo non era neppure sufficiente per permettermi di rimanere dentro i tempi e le modalità imposti dal trattamento (viste le spese per i mezzi di trasporto, la quota che il carcere detiene sullo stipendio ecc). Nel contempo riuscire a mantenere gli affetti era compito arduo, perché nel momento in cui puoi riunirti intorno ad un tavolo per consumare la cena è già tempo di rientrare in istituto e gli impegni che anche i familiari hanno non permettono loro di rendersi disponibili se non nelle ore non lavorative, che, nella maggior parte dei casi, sono quelle della sera. Quando io mi trovavo già in fase di rientro nel carcere. Queste situazioni, unite alle piccole frustrazioni che inevitabilmente si accumulano quotidianamente, crearono una miscela esplosiva, lo stress aveva raggiunto il punto critico, oltre il quale si perdeva la capacità di rimanere lucidi… Quando mi resi conto che avevo, di nuovo, oltrepassato il punto di non ritorno, era ormai tardi, e ritornai così a ragionare nei modi e nei termini in cui ragiona una persona braccata, aumentando tensione su tensione, e arrivando inevitabilmente alla mia attuale incarcerazione. Durante l’arresto mi sono passate davanti le immagini di un film già visto, con la prospettiva che questa volta il finale è tutto da riscrivere, perché mi rendo conto del fallimento di questa mia esperienza, in cui persone che mi hanno dato fiducia e hanno creduto in me sono state deluse. Le aspettative che avevo cercato di concretizzare si sono dissolte attraverso un atto incosciente, un atto che credevo mi risolvesse in parte dei problemi, ma che, di fatto, me ne ha creato altri più seri. Resta, al momento, l’opportunità che mi è stata data per raccontarmi ed avere, in termini emotivi, rivissuto quel periodo, permettendomi di comprendere che tutto ciò che ti è dato è un beneficio, al quale va concesso tutto il rispetto possibile, ma che andrebbe anche affrontato con la consapevolezza che siamo persone in difficoltà e abbiamo bisogno di una rete di sostegno e "salvataggio" intorno a noi.
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