Cronaca del duro arrivo in un altro mondo, il pianeta carcere

 

Di Marco Rancani, luglio 1998

 

Ricordo che per vedere il cielo dovetti allungarmi sul pavimento.

 

Quando si ha la mia età, 32 anni, si pensa che ormai ci sia poco che possa stupire, e tuttavia non riesco proprio a comunicare i miei pensieri sulla tragedia che mi ha colpito e che ha quasi annientato la mia libertà, perduta nel lontano novembre di due anni fa. Era una mattina d’autunno: l’arresto, l’ambiente che mi accolse sembrava "asettico" ed era illuminato anche di giorno da luci al neon. Espletato il rito della perquisizione e delle impronte digitali, dichiarate le generalità anagrafiche, sono entrato in quella che sarebbe stata la mia cella!

E qui è iniziato il passaggio in un altro mondo, chiamato "il pianeta carcere". Ciò che mi colpì per primo fu la polvere, padrona di tutto. Guardandomi poi attorno, notai un letto a castello, un armadio, un piano di ferro....il tutto imbullonato alle pareti; e ancora, c’era un materasso di gomma gialla, sporco, occupato in parte dal corredo per la notte. L’unica finestra guardava su un muro grigio che riempiva tutto il campo visivo: ricordo che per vedere il cielo dovetti allungarmi sul pavimento. Anche questo, in grisaglia beige, contribuiva col suo colore ad abbassare la temperatura. In un angolo della stanza c’erano inoltre un water, un lavabo con sopra uno specchio di plastica rigata.

Decine e decine di cartoline erano state incollate, forse per passatempo, alle pareti e poi, nel tentativo di strapparle, erano rimaste appese parti di paesaggi sereni. Così, come quei brandelli di cartoline spezzate e strappate, era in quel momento la mia esistenza, ero stato strappato e re-incollato in un modo non mio! Nello strappo avevo lasciato tracce di me in un’altra parete. Si avvicinava il buio e con il buio erano sempre più scuri i miei pensieri: "Perché non la soluzione ultima?". Ancor oggi mi sento vigliacco per averlo pensato.

Da allora, tolte alcune ore del giorno, vivo, o meglio vegeto, sempre chiuso in una cella di 12 metri quadri. Mi trovo al buio come fossi cieco, smarrito, stressato, non so mai cosa possa succedere da un momento all’altro. Mi arriva una speranza e poi… me la vedo portare via, e ancor peggio è il pensiero di cosa possa succedere "là fuori" ai famigliari, ai parenti, alle persone care.

Spesso mi sembra di guardarmi fare quello che sto facendo, qui di fuori, come fossi un altro io quello che osserva e pensa, un altro al sicuro, fuori da questo pianeta, e lui resta a guardare quel poveraccio che si trova in una tragedia del genere. L’unica ancora di salvezza psicologica è il pensiero di avere corresponsione di affetti. Credo infatti che non ci possa essere niente di più spaventoso che essere dimenticato.

La mia vita è fatta di attese e ora, qui, l’attesa è la vita. Mi trovo continuamente immerso in un dibattito interiore con la mia esperienza e coscienza, mi chiedo se c’è Dio, se c’è la giustizia divina, e poi cos’è giusto e cosa non lo è. A volte è come discutere sul sesso degli angeli, altre volte sono stanco di conversare con me stesso e mi soffermo ad osservarmi allo specchio e scopro, sempre più evidenziate, le impronte che questa detenzione lascia sui miei lineamenti: i capelli bianchi sempre più numerosi, gli occhi sempre più stanchi senza più quella luce giovanile che li rende vivaci. Sono però riuscito a modificare e fortificare un certo modo mio di essere, faccio di tutto per lasciar passare solo le emozioni positive, solo ricordi belli, conservati nella cassaforte della mia memoria.

 

Nella detenzione ci si inselvatichisce, cresce l’opportunismo.

 

Ci sono molti lati negativi che la detenzione presenta e uno di questi, a mio avviso, è il modificarsi dei valori: non c’è posto infatti per l’umiltà, per la buona educazione, confusa dai più con la debolezza, quindi ci si inselvatichisce, cresce l’opportunismo, l’egoismo, il qualunquismo celati da una ipocrisia e solidarietà false. L’unica terapia capace di contrastare tutto ciò è ricordare le tante difficoltà superate sia nei rapporti con le persone care e amiche sia nelle prove affrontate, a partire dall’infanzia, pensare a quanti autoconvincimenti ho dovuto ricorrere per vincere i miei timori e le sofferenze nel mio primo giorno di "collegio", in verità un orfanotrofio, e di scuola; quanti desideri ho dovuto sacrificare per le necessità primarie mie e della mia famiglia, quante cose, che avrei voluto fare, non ho fatto perché influenzato da una visione della vita bigotta e semplicistica, per la quale tutto è lotta per la conquista di una posizione nella società.

C’è ancora un aspetto, è molto importante, di cui vorrei parlare e cioè il nostro contatto con il mondo esterno, il colloquio. Le emozioni provate durante queste ore sono indescrivibili, misuri il trascorrere delle settimane con il colloquio e, appena esso termina, inizi di nuovo a misurare il tempo, cerchi di pensare a cosa dirai al prossimo colloquio e cominci ad immaginare lunghi dialoghi pieni di simpatia, di battute intelligenti e, perché no?, stupide che magari fanno sorridere chi ti sta di fronte. Chiedi novità di casa, degli amici, ti informi della salute di qualcuno; comunichi che il tale ti ha scritto e che ne sei rimasto piacevolmente sorpreso; che la tua "domandina per" è stata accolta oppure respinta. Tu doni all’altro la tua esistenza piuttosto monotona e misera di novità e chiedi in dono "la vita, là fuori" così trasbordante di tutto! Riesci allora a darti una bella carica di adrenalina che ti fa sopravvivere sia al masso che ti è caduto addosso che al grigiore e alla negatività che ti ritrovi ad ingoiare ora dopo ora, giorno dopo giorno.

Piano piano ho ripreso a parlare, ad andare all’ora d’aria, a partecipare ai vari corsi scolastici, a cambiarmi, leggere, studiare e infine scrivere: ho ripreso a credere nel futuro anche sapendo che soffrire è parte integrante dell’esperienza umana.