Diritto alla salute, diritto a un trattamento umano

Solo con la paura della malattia

In definitiva, quello che rivendico è il diritto ad essere trattato umanamente, ad essere informato se sto male, ad avere una attenzione vera da parte di chi dovrebbe occuparsi della mia salute

 

di Prince Maxwho Obayangbon, dicembre 2007

 

Recentemente, ho vissuto un’esperienza che voglio raccontare, perché credo che sia emblematica per capire cosa significa ammalarsi in carcere. Non voglio fare accuse gratuite, ma ho subito un trattamento ingiusto, e credo che ci sia stata davvero disattenzione nei miei confronti da parte del personale sanitario.

I detenuti devono sempre subire e tacere, specialmente quelli di colore relegati spesso all’ultimo posto della graduatoria delle persone che contano: e non credo di fare del vittimismo, ma lascio giudicare a chi leggerà questa storia. Perché io credo che tacere non sia giusto.

Così si è svolta la mia odissea: il compagno di cella che avevo avuto per più di un mese era gravemente ammalato già prima che arrivasse in questo istituto. A forza di lamentarsi, è riuscito ad andare dal dottore per farsi visitare. Per via della mia fiducia nei medici non immaginavo che non gli avrebbero diagnosticato subito una malattia che avrebbe potuto essere contagiosa. Assistevo quel ragazzo e lo aiutavo in tutte le maniere che potevo, devo dire forse ingenuamente dal momento che era anche un tossicodipendente dichiarato, e non sapevo nulla del suo reale stato di salute.

I sanitari lo riempivano tre volte al giorno con diversi farmaci per gestire la sua patologia, e tutto questo mi faceva perseverare nella mia fiducia di non correre nessun rischio.

Lui era debole, magrissimo, e per un esperto quelli avrebbero dovuto essere segnali molto allarmanti. Un giorno lo vidi vomitare sangue, così chiamai l’agente in servi­zio, che a sua volta chiamò l’infermeria. Seguì la visita medica e il ricovero in ospedale.

Dopo circa una settimana, provai ad informarmi sulla situazione del ragazzo, ma con esito negativo.

Chiesi di essere visitato dal dottore perché, sebbene non ci fosse alcuna fonte sicura, giravano voci di corridoio sulla gravità della sua patologia, cosa che faceva aumentare vertiginosamente la mia preoccupazione.

Il 26 novembre finalmente venni convocato dal dottore.

Giunto in infermeria chiesi notizie del mio compagno di cella. Mi venne consigliato di fare la domanda per parlare con il dirigente sanitario, l’unico in grado di darmi una risposta concreta. Questo soprattutto per una questione di privacy.

Mentre stavo uscendo dall’ufficio, mi chiamò l’agente, dicendomi di preparare le mie cose perché stavo per essere trasferito in un’altra sezione. Ho subito chiesto dove mi avrebbero mandato e il perché di questo trasloco. Mi rispose di non sapere niente.

Così sono cominciati quindici giorni da incubo. Solo per farmi giungere alla sezione dell’infermeria c’era, intorno a me, uno stato da top secret. Sentivo gli agenti parlare bisbigliando da un cancello all’altro, finché finalmente arrivai in quel reparto. Vi sono stato segregato senza sapere il perché, e a quel punto ho capito che ero in un bel guaio.

Tutto era inspiegabile, e io ero invaso da mille pensieri. In primo luogo avevo capito che si trattava sicuramente di una malattia infettiva. Anche se mi sembrava già troppo tardi, ho cominciato a pregare. Il pensiero andava soprattutto alla mia famiglia già sofferente. Essere contagiato da una malattia grave malgrado tutte le mie precauzioni sarebbe stato rovinoso anche per la mia famiglia e per tutta la mia situazione.

Era ovvio che mi preoccupassi tanto: nel colloquio settimanale i miei cari mi abbracciano e mi baciano, i bambini mi saltano addosso amorevolmente, non parliamo di mia moglie, che rappresenta tutto per la mia famiglia, soprattutto in una condizione così delicata. Mi chiedevo che notizia sarebbe stata per lei apprendere che avrei potuto averli contagiati benché non ne avessi colpa.

 

La mancanza di informazioni ti uccide più della malattia

 

Da quel giorno tutti si sono tenuti alla larga da me, anche gli agenti che erano le prime figure responsabili per ogni mia necessità quotidiana. Nessuno dell’area sanitaria veniva a spiegarmi alcunché. Il giorno successivo, dopo vari tentativi di chiedere agli agenti di farmi parlare con i medici, ho fatto domanda scritta per parlare con il dirigente sanitario, che il pomeriggio seguente è venuto a spiegarmi il motivo per il quale ero stato confinato lì. Si trattava di una misura preventiva perché al ragazzo che era stato in cella con me era stata riscontrata la tubercolosi.

È stato anche tirato in ballo, con poca conoscenza di come erano andate davvero le cose, il fatto che ,quando ero a Treviso, ero stato sottoposto a degli esami perché non stavo bene. A Treviso sono stato ricoverato in ospedale perché in un primo tempo si sospettava di un caso di tubercolosi, ma alla fine gli esiti furono tutti negativi. NESSUN VIRUS DI TUBERCOLOSI. Poi ho lavorato in cucina, con mansioni da cuoco fino al giorno in cui sono stato trasferito qui.

Ho chiesto quanto i miei fossero esposti ad un ipotetico rischio di contagio. Era l’informazione più importante per me in quella situazione. Il dirigente sanitario mi ha risposto di avere pazienza, assicurandomi che mi avrebbe fatto sapere “al più presto”.

Ho chiesto anche perché non ci fosse un controllo preventivo all’entrata dei detenuti in istituto, poiché davo per scontato che ciò avvenisse, ma dalla sua risposta ho avuto la sensazione che non si tratta di una pratica obbligatoria.

Siccome dovevo anche telefonare a casa, mi servivano informazioni sul quadro generale della mia situazione. Volevo, dovevo sapere come comportarmi in generale, e soprattutto con la mia famiglia. Allora ho cominciato a insistere con gli agenti perché mi facessero parlare con i medici che dovevano darmi le importanti informazioni che mi aveva promesso il dirigente sanitario. Il giorno successivo è arrivata una dottoressa, ma questa volta non mi hanno lasciato nemmeno uscire dalla cella. Lei se ne stava a due metri di distanza dalle sbarre, rispondendomi in modo sbrigativo solo con dei superficiali: “Sì, sì, sì,… ti farò sapere…”. Aveva fretta di andarsene.

Le mie domande non avevano avuto risposta alcuna. Ho tentato ancora ripetutamente e ostinatamente di parlare con i medici. È tornata la stessa dottoressa, ma la comunicazione è stata peggiore della prima volta. A questo punto non sapevo più cosa fare! Cercavo di ottenere qualche informazione e qualche consiglio professionale dagli infermieri, ma mi rispondevano tutti di non essere abbastanza competenti per aiutarmi, eccetto un’infermiera che vidi solo un paio di volte e mi diede più che altro un po’ di sostegno morale.

In quindici giorni sono andato ai passeggi solo per due ore e mezza. Alcuni agenti non mi aprivano nemmeno per farmi andare in doccia. Durante questo periodo ho dovuto gestire i rapporti con la mia famiglia affidandomi solamente al mio buon senso per non peggiorare ulteriormente la situazione.

Alla fine ho fatto domanda di parlare con uno psicologo: ero molto stressato ed esaurito mentalmente per tutto ciò che era accaduto e che ancora non vedeva il traguardo di una soluzione. A tutt’oggi sto aspettando.

In realtà, quel “al più presto” del dirigente sanitario ha significato avere una risposta dopo 15 giorni, il 10 dicembre 2007, quando è terminato il mio isolamento e mi sono stati comunicati gli esiti degli esami cui ero stato sottoposto, nonché la terapia di profilassi.

A proposito della cura non ho la competenza per dire se c’è stata qualche negligenza o qualche errore. Quello che mi sembra assurdo è che ci possa essere un rapporto più umano tra agenti (preparati all’uso della forza) e detenuti, che non tra personale sanitario (che dovrebbe avere una formazione umanitaria, sociale, di attenzione vera alla persona che sta male) e detenuti.

In definitiva, quello che rivendico è il diritto ad essere trattato umanamente, ad essere informato se sto male, ad avere una attenzione vera da parte di chi dovrebbe occuparsi della mia salute.