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Quando si conosce solo il linguaggio della vendetta Oltre alla sofferenza ci hanno trasmesso una enorme quantità di cultura Dalle vittime è venuta una cultura di dialogo e apertura, che oggi manca assolutamente nel mio paese, l’Albania, ma che manca sempre di più anche qui in Italia
di Pierin Kola, giugno 2008
Alla giornata di studi che abbiamo organizzato nella palestra del carcere ho partecipato con molta curiosità. Ero attentissimo perché tutti dicevano che poteva succedere di tutto. Infatti, c’era tensione pensando alla presenza delle vittime, perché non è facile vederti uccidere un famigliare e poi entrare in carcere per raccontare la tua esperienza a cento condannati. Ma sin da subito mi ha colpito la dignità mostrata dalle persone, vittime di reati, che sono venute a parlarci, e soprattutto la mancanza di animosità nei confronti di tutti noi, che comunque siamo qui per aver fatto del male a qualcuno. Questo mi ha fatto riflettere molto sul fatto che quelle persone avevano uno spessore culturale notevole e credo che la cultura abbia avuto un ruolo importante nel modo con cui si sono poste rispetto a noi. Certo che se fossi stato anch’io un giornalista o uno scrittore, forse non avrei fatto gli errori che mi hanno portato in carcere. Non è che adesso cerco di giustificarmi dicendo che era tutta colpa dell’ignoranza, dico solo che ascoltare quelle persone parlare in modo così aperto e umano, anche se piene di dolore e rabbia per i famigliari uccisi, mi ha fatto riflettere che la cultura c’entra molto. Io fino a ieri pensavo che quando qualcuno ti fa del male, l’unico linguaggio da usare è la vendetta e la violenza. Ma il giorno del convegno, mentre ascoltavo Silvia Giralucci, ho provato a mettermi nei suoi panni e a immaginare per un momento di essere anch’io uno che dice al suo nemico: “Non mi interessa la vendetta, però ti devi vergognare di quello che hai fatto”. Allora ho pensato che, se anch’io avessi avuto il coraggio di dire questo, oggi non sarei qui e non avrei tolto la vita ad un altro. Ma non solo io. Se anche molti miei paesani ragionassero così, non ci sarebbero in Albania tutti quegli omicidi per vendetta e tante famiglie distrutte dal dolore. Invece io e molti miei compagni di scuola pensavamo che studiare e imparare a ragionare fosse solo una perdita di tempo, e che la cosa più importante erano i pantaloni di marca e le macchine sportive. Così, quando mi sono ritrovato a dover usare la testa, mi sono fatto trasportare dall’istinto invece di ragionare. Allora io penso che questo incontro è stato soprattutto uno scambio culturale, o per meglio dire che le persone che sono venute a raccontarci le loro sofferenze ci hanno trasmesso anche una enorme quantità di cultura, quella cultura di dialogo e apertura che oggi manca assolutamente nel mio paese, ma che manca sempre di più anche qui in Italia. |
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