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La disperazione del primo impatto con la galera al Circondariale
di Paolo Pasimeni, dicembre 2005
La mia esperienza con il carcere ha avuto inizio con il mio ingresso nella Casa circondariale “Due Palazzi” di Padova nel 2001. Non ero mai stato in carcere prima d’allora e mai avrei pensato di entrarvi, vista la mia totale estraneità a qualsiasi tipo di delinquenza. Mi ricordo il mio ingresso nell’istituto come l’ingresso in un mondo parallelo fatto da cancelli e blindi al posto delle porte, e sbarre al posto delle persiane. Mi ritrovai in una delle celle dell’isolamento in cui fui segregato per qualche tempo per ordine del giudice per le indagini preliminari. Dopo alcuni giorni, iniziai ad andare “all’aria”: un corridoio largo circa due metri e mezzo e lungo una ventina, circondato da cemento e filo spinato. Il regime di alta sorveglianza cessò nel giro di meno di una settimana e venni “declassato” a detenuto comune. Purtroppo però, a causa del sovraffollamento, mi trattennero nel reparto isolamento nonostante l’ordinanza emessa da parte del giudice. Nel frattempo tale reparto iniziò a popolarsi di altri detenuti, tanto da riempire le celle d’isolamento con tre detenuti per cella, cosa, questa, che mi pare entri in conflitto con il significato della parola isolamento. Capii però ben presto come nel mondo in cui ero entrato di logica ve ne fosse ben poca. L’acqua che fuoriusciva dal rubinetto era limacciosa, i sanitari erano fatiscenti e, per di più, non si potevano avere in dotazione i detergenti. Ci si poteva fare una doccia una volta alla settimana, perché l’intero braccio era pressoché sprovvisto di docce. Ben presto alcune persone detenute presso le celle contigue alla mia iniziarono a protestare e non mancarono atti di autolesionismo. Per tranquillizzare gli animi, mi ricordo che venne il comandante e ci disse che nel giro di pochi giorni saremmo stati collocati presso il reparto dei comuni.
Nove compressi in una cella da quattro
Entrai, quindi, nella cella 25 del secondo blocco della Casa circondariale e all’inizio mi sentii preso dall’angoscia, poiché mi ritrovai in mezzo ad altre otto persone in uno spazio progettato per contenerne quattro. Ero il più giovane e venni accolto positivamente da tutti i componenti della cella. Ma stare in nove in quella stanza così piccola era molto difficile, la convivenza forzata fra persone estranee e con problemi differenti come la tossicodipendenza e/o problemi psichici era spesso causa di discussioni animate. C’é da dire che, però, io fui fortunato a capitare in quella cella, poiché la maggior parte erano delle singole in cui erano stipati tre detenuti che, per tutto l’arco della carcerazione, dovevano condividere gli stessi cinque-sei metri quadrati con annessi sanitari a vista, tavolino e 2 sgabelli. In effetti, il terzo sgabello non aveva senso tenerlo in quelle celle, tre detenuti in piedi non ci potevano fisicamente stare: uno, almeno, doveva rimanere sempre seduto o disteso sul letto! Gli spazi ricreativi erano relegati ad un’ora e mezza al giorno passata in una sala in cui circa 50 persone si trovavano a dividere un tavolo da ping-pong e un calcio balilla. Nemmeno le tre ore di passeggi quotidiane erano tanto meglio. Le arie erano due. Una di queste era un campo da calcio non regolamentare colmo di buche e completamente sprovvisto di tettoia sotto la quale ripararsi in caso di mal tempo. L’altro passeggio era completamente in cemento, grande più o meno quanto un piccolo campo da pallacanestro. Va detto, inoltre, che entrambe le arie erano sprovviste di un bagno e, quindi, si doveva costantemente fare attenzione a non sporcarsi con i “residui organici” altrui. Le condizioni igieniche all’interno dell’istituto, poi, non erano tanto migliori. Aree come la biblioteca erano pressoché inagibili, c’erano nidi di uccelli al suo interno per non parlare dei cumuli di polvere che sovrastavano i libri. Tale area era chiusa, perché il tragitto che portava dalla rotonda alla biblioteca era pericolante; c’erano pezzi di soffitto sul pavimento e le transenne piazzate per i lavori di ristrutturazione rimasero lì per tutto il periodo trascorso da me in quell’istituto. L’impressione che ho avuto dello stato in cui versa la Casa circondariale di Padova è quella di una struttura al collasso, in cui nessun parametro igienico-sanitario può venire rispettato, a scapito della salute dei detenuti, ma anche degli operatori. Mancano i farmaci a causa del sovraffollamento, persino le aspirine sono un lusso e anche un semplice mal di testa può essere un problema serio da risolvere. |
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