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La vita degli immigrati è più che un film!
Un film spesso amaro e violento, dove se entri in contatto con la droga difficilmente riuscirai a impedirle di rovinare la vita a te e ai tuoi amici migliori
Di Omar, dicembre 2000
Il mio compagno di cella mi chiede: - Perché sei sempre in cuffia? Perché non guardi mai un film? - Ascolto la musica perché mi dà emozione, anche senza capirla… mi porta lontano, fuori dalle mura del carcere, e poi la vita degli immigrati è più che un film!" Così gli rispondo, e comincio a raccontare una storia di immigrati, il mio compagno allora cambia canale, mette MTV, e mi dà ascolto. "… Pensando all’Italia, mi viene subito in mente un’esperienza tragica, perché quando il destino e la mala sorte ti mettono in difficoltà, devi solo subire disavventure. Mi ricordo quando, con già addosso un’espulsione dalla Germania, cercavo una soluzione per tornare in Europa, e l’unica mi era sembrata quella di trovarmi una moglie in un paese straniero, cioè non in Tunisia, da dove provengo, ma neppure in Germania, per via dell’espulsione: sposarmi con una cittadina tedesca era forse l’unica possibilità che mi avrebbe permettesso di rientrare in Germania. Perché proprio l’Italia? Mi sembrava la via più conveniente, tanto a Tunisi avevo già programmato il viaggio, e così è stato. La storia comincia allora così: arrivo a Roma assieme alla mia ragazza tedesca, Coni, ci sistemiamo in casa di un amico, di nome Nabil, un vecchio compagno di scuola, con permesso di soggiorno e un lavoro di meccanico. Subito contatto il Consolato, per riavere il maledetto passaporto. "Sì, sì, va bene", è la loro solita risposta… a condizione che "metti il grasso per muovere la ruota". "Mettere il grasso", vorrebbe dire corrompere, ma… mi andrebbe bene lo stesso visto, che l’uso del "grasso" è un sistema molto diffuso tra noi tunisini. Passa la prima settimana, ne passa un’altra, la terza settimana comincio a perdere la pazienza: il passaporto non l’ho avuto, e ho speso quasi tutti i soldi che ho, quindi devo inventare un modo per vivere e non so cosa posso combinare. Girando per Roma, più volte la mia strada s’incrocia casualmente con quelli che mi chiedono: "Alì, hai roba?". Io rispondo, sorridendo, o dondolando la testa, cioè intendendo dire che non ne ho. Di notte, Roma è molto viva, qualcosina potrei combinare anch’io, e di conseguenza chiedo a Nabil se può procurarmi un po’ di eroina. Nabil mi sorprende, confessandomi che piccoli spacci li fa anche lui, ogni tanto, perché il suo stipendio non è sufficiente per affrontare la vita così cara. Avere una buona conoscenza della lingua italiana non è proprio necessario per esercitare la "professione" dello spacciatore a Roma, l’importante è la bontà della merce, inoltre l’avere la ragazza spesso con me mi privilegia, perché non insospettisco la polizia. Tutto il mese tiro avanti su questo ritmo, senza cambiare una virgola; il passaporto sembra irraggiungibile, malgrado tutto il "grasso" che produco e fornisco al Consolato, mettendo a rischio la ragazza che, pur volendomi un sacco di bene, deve andare a Parigi, per sei mesi di studio. A Roma conosco centinaia di persone che vivono con "affari" di ogni tipo, che offrono una vera e propria catena di servizi illegali tra cui, ad esempio, i documenti falsi. Allora mi dico: "Falsi, o buoni, per me vanno bene lo stesso". Devo procurarmi una falsa identità, per poter raggiungere Coni, che nel frattempo è partita per Parigi e ha già contattato qualcuno al Consolato tunisino in Francia, dove sembra ci sia meno corruzione che in Italia e dove, quindi, posso sperare di ottenere il passaporto. Chiamo Nabil e gli racconto le mie intenzioni, lo vedo molto interessato, anche lui vuole cambiare vita e, con questo comune progetto, entriamo in società per mettere da parte i soldi per i viaggio. Fino a questo punto va tutto bene, ma i problemi non mancano: il "signor" Nabil tira, non è un calciatore ma tira lo stesso: tira eroina, prima d’ora non ci ho badato, non servono i consigli in questi casi, a meno che anche tu non abbia vissuto la stessa esperienza. Gli dico: "Per adesso, fai quello che vuoi, ma se andrà tutto bene e riusciamo a rientrare in Germania non devi più toccare questa merda, altrimenti ti tiro il collo!" Il tempo corre velocemente, ci diamo molto da fare e riusciamo ad accumulare la somma con cui Nabil è in grado di procurare la partita "giusta" di eroina, quella che, una volta venduta, ci garantirà le spese per il viaggio. Il giorno successivo ci muoviamo verso i Castelli romani, accompagnati da Pino, una vecchia conoscenza di Nabil. Arrivati lì, dopo un’oretta di attesa, abbiamo la "partita giusta", poi torniamo a casa. Noi ci fermiano, invece Pino va dalla sua ragazza, che lo sta aspettando. Mezz’ora dopo squilla il telefono, è Pino, dice che la sua ragazza ha avuto un’overdose, perché la droga contiene una sostanza tossica, ed ora sta all’ospedale… Sento l’amarezza del fallimento e comincio a perdere la ragione: "Nabil che facciamo?". "Non preoccuparti, ora vado a cambiare l’eroina, tu aspettami qui, torno presto", mi risponde. Passano le ore, arriva il buio, ma Nabil non è tornato, passano addirittura due settimane e di lui non so più nulla, nel frattempo devo inventare un sacco di bugie per rassicurare i suoi famigliari, che sento al telefono. Verso la fine del mese la notizia, del tutto inaspettata: sull’autostrada Roma – Napoli, in una vecchia fabbrica, trovano il cadavere d’uno sconosciuto, Pino mi spiega che il poveraccio descritto sul giornale porta abiti uguali a quelli di Nabil. Con i gesti, più che con le poche parole che sapevo dire, racconto a Pino tutta la storia, di quando Nabil se n’è andato con la "partita buona" e che probabilmente ha usato di quella merda. Di certo non è il momento di chiacchierare, con l’aiuto di Pino ci rivolgiamo alla questura, consegnando i documenti di Nabil, poi ci dirigiamo verso il Consolato per avvisare anche loro dell’accaduto. Quelli del Consolato mandano un tipo assieme a me naturalmente per identificare e certificare che il morto è Nabil. Fin qui me lo sono cavata, nel frattempo l’autopsia conferma che il ragazzo ha avuto un attacco cardiaco, a causa della sostanza tossica contenuta nell’eroina Nabil è morto, quanto mi dispiace non so dirlo a parole, ma Dio sa ciò che provo: un disagio, misto a confusione, ma la realtà è lì, raccolgo gli spiccioli di quel coraggio che la disperazione mi concede per affrontare la madre del ragazzo, mia madre, il quartiere, e tutto il resto. In quella notte giro l’intera Roma, tiro quella roba che ha ucciso Nabil e capisco perché più persone tirano e continuano a farlo, anche se consapevoli delle conseguenze a cui vanno incontro. La mattina rientro a casa di Pino e, sotto la doccia, mi viene un’idea: nei pochi mesi in cui mi sono fermato in Tunisia, frequentavo una ragazza in gamba, su cui posso contare. Chiamo la ragazza, le racconto la storia e rimaniamo d’accordo che mi telefonerà subito dopo aver dato ai parenti di Nabil la notizia, perché io proprio non ho il coraggio di dar loro questo grande dispiacere. Nei due giorni successivi, sono molto ansioso; verso mezzanotte, squilla il telefono: è Somaia, la mia amica tunisina, e dal suo tono capisco subito che la notizia della morte di Nabil è già arrivata, a quel punto chiamo mia madre, e cerco di dare una spiegazione sia a lei, che alla madre del mio amico. Quella notte mi sembra che qualcosa si sia spezzato per sempre nella mia vita. Cerco allora di lasciare alle spalle quell’amara esperienza, e di andarmene più lontano possibile da quella storia: raggiungo così la frontiera, dove Coni mi aspetta.
Un mese dopo ho avuto il passaporto e mi sono sposato, ora abito nuovamente in Germania, lavoro in una fabbrica e non mi lamento, dalla droga cerco di stare ben distante, e so che anche Pino si è reso conto del rischio che correva: la morte di Nabil ha insegnato molto a tutti e due.
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