Il muro dell’incomprensione...

 

La dura esperienza di Omar, recordman carcerario con ben 180 rapporti disciplinari in sei mesi… Tutti necessari?

 

Di Omar Ben Alì, gennaio 2001

 

Era già un anno che ero in carcere. Superare il primo impatto non era stato per niente facile, ma avevo cercato di evitare guai in tutti i modi. Ad esempio, se temevo che ai passeggi ci sarebbe stata una rissa o una discussione, e non mi interessava personalmente, me ne stavo in cella. In questo modo per un anno non ho preso neanche un rapporto.

Avevo fatto i miei calcoli: ero stato condannato a cinque anni di carcere, con la buona condotta in quattro anni avrei finito. E invece qualcosa non è andata bene. Quasi come un risveglio improvviso… Caspita, sono in carcere! Mi sembrava un brutto sogno, invece non lo era affatto.

Credevo di aver capito come si vive in carcere, per non prendere rapporti avevo imparato a schivare le provocazioni di tutti i generi, ma il mio primo rapporto… iniziò il suo "iter" mentre stavo dormendo. Questo non potevo né prevenirlo, né evitarlo.

 

Blindi, cancelli dipinti di un rosso rabbioso, la cella stretta come uno sgabuzzino, la mattina comincia sempre con la solita melodia del carrello del latte che rumoreggia, e precede l’inizio di una nuova giornata. Il tempo scorre pazientemente. C’è chi va ai passeggi per prendere una boccata d’aria, chi invece preferisce farsi una doccia calda: oltre che per lavarsi, d’inverno la si fa anche per scaldarsi un po’, inoltre si parla tra di noi, riusciamo a trovare anche molto su cui sorridere, usando l’ironia per contrapporla ad una realtà in cui spesso c’è veramente poco da ridere.

Al 1°A (la sezione giudiziaria della Casa di Reclusione in cui sono ristretti esclusivamente stranieri), i tempi erano rigidi e miserabili, si stava davvero male.

Io mi comportavo bene con la speranza di fare meno carcere possibile, invece tutto sfumò in un momento. Il primo rapporto lo potrei riassumere così: "Maledetta caraffa, ti sei messa nello spioncino, impedendo all’agente la chiara visione della cella". Sì, perché le cose sono andate proprio così: per comodità, perché ho visto che altri lo facevano, ho messo la caraffa per il latte sullo spioncino, non sapendo che non è permesso. E quando l’agente me l’ha buttata per terra, ho reagito perché non ne capivo il motivo.

A questo punto, immagino di poter chiedere spiegazioni alla caraffa, e che lei mi risponda. In carcere tra le altre cose può succedere anche questo.

Io: "Ma ti rendi conto che per causa tua mi sono beccato un rapporto?".

La caraffa: "Sono problemi tra voi uomini, tra noi oggetti non accade".

Io: "Ma non potevi gettarti di lato almeno per un attimo?".

La caraffa: "Ma se non occupo neanche un terzo dello spioncino! senti, amico mio, certamente i problemi sono altri, ma possibile che il vostro problema sia io?".

Va bene, lasciamo perdere, certo che succedono delle cose veramente strane. Per ogni cosa, e quindi anche per i rapporti disciplinari per chi sta in carcere, c’è sempre una prima volta e, saltato il fosso, non c’è più nulla da fare, non ci si ferma più, anche perché il rapporto in pratica è considerato un metodo rieducativo. Un primo rapporto può avere probabilmente questa funzione, due servono a sottolineare che stai continuando a sbagliare, ma 180 rapporti (questo è il numero di rapporti presi in sei mesi) fanno riflettere. Qual è il loro fine, la loro funzione? Per spiegare questo ci vuole un esperto, io posso solo elencare i fatti. E comunque ciò che dico è facilmente verificabile. 180 rapporti in sei mesi, in pratica tutte le mattine ero all’ufficio comando. A volte erano rapporti collettivi, eccessivo rumore nella sezione, oppure capita che sei presente ai passeggi, nasce una rissa, sei dentro e dal rapporto non hai scampo. A un certo punto mi sono abituato a prendere un rapporto al giorno, e non facevo più molto per evitarli.

Comunque cercavo un mezzo per uscirne, spesso rimanevo in cella per evitarli, ma era inutile.

Se ripenso a questa storia, non riesco a capire tuttora dove sbagliavo.

Nel frattempo la terapia che mi veniva data per calmante si era "rovesciata" facendomi l’effetto contrario. Mi sentivo sempre agitato, ansioso, depresso, chiedevo costantemente l’aumento della dose, ma più ne assumevo più non capivo un tubo.

Cominciavo a pensare che la violenza fisica non l’avevo mai subita, ma quella psicologica proprio non sapevo come impedirla. Non sapevo che esistevano le educatrici, né le assistenti sociali, ma avevo necessità di parlare con qualcuno di quanto stava succedendomi.

Tra le varie stupidate che ho fatto, in quel periodo in cui avvenne un vero e proprio black out del mio cervello, ho spaccato la cella, sono stato messo in isolamento, mi sono rotto la testa contro le sbarre, finendo anche all’ospedale.

Ero talmente stufo che ho perso la stima verso me stesso, e addirittura ho tentato di impiccarmi. Speravo che finisse lì e poteva finire lì… e mi stava bene, tanto la morte dà più dignità di quella miserabile realtà.

Ora un gesto simile non lo ripeterei più. Io sono una persona del tutto normale e mi piacerebbe anche vivere nonostante il carcere. Non mi aspettavo che mi accadesse una simile esperienza, ammetto di aver anche sbagliato, ma quando sopraggiunge la disperazione, tutto il resto perde valore.

Tornato in carcere accadde qualcosa che cambiò il mio destino, e cominciò una nuova vita. Innanzi tutto, mi spostarono dal 1°A, e contemporaneamente fui inserito in un corso scolastico, le 150 ore per la scuola media. Ho potuto così imparare la lingua, e questo mi ha dato un grande sollievo mentale. Finalmente riuscivo a farmi capire. Il contatto con gli insegnanti, il poter stare insieme ai miei compagni di classe mi ha portato dei benefici immediati, soprattutto dal punto di vista comportamentale. Da allora, è già un anno che non prendo rapporti.

Tuttora sono in carcere, e vivo quasi serenamente, perché terminata la scuola ho cominciato a lavorare nella redazione del giornale, e frequento anche il corso di "autoaiuto" A.C.A.T.

Quello che è capitato a me, purtroppo è accaduto anche ad altri. Il sistema migliore, per aiutare chi si trova a vivere un’esperienza come la mia ad uscirne fuori senza impazzire, non è certo quello di "rieducarlo" con una marea incredibile di rapporti! La scuola è un metodo giusto, il coinvolgimento in attività che ti permettono di dare un senso a questo periodo della vita certamente tra i più drammatici, soprattutto per il fatto che ti trovi in carcere per delle scelte sbagliate. Non auguro a nessuno di vivere questa mia esperienza.