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Il gelido inverno degli affetti in carcere
Dopo anche il più gelido inverno tornerà pure la primavera, ovvero il gelido inverno degli affetti in carcere
Di Nicola Sansonna, giugno 1999
Quest’anno compio 20 anni! Chi non ricorda con gioia, e non festeggia un compleanno così importante? Ma io certamente non accenderò 20 candeline su una soffice torta alla crema… perché i venti anni che compio sono di galera. Sono cosciente di avere commesso dei gravi reati, e riconosco il diritto della Società di difendersi e tutelarsi, anche se a volte "l’eccesso di legittima difesa" è in agguato (ma personalmente non ho niente da recriminare). Ho fatto i miei errori, dovuti inizialmente alla mia immaturità, quando mi sono trovato di fronte a problemi che andavano oltre la mia comprensione. Avevo 19 anni, e ho fatto una scelta di stile di vita sbagliato! Whisky e cocaina sono stati miei compagni di strada. Questi, ripeto, sono miei errori. Sono io dunque il soggetto che deve subire la reazione di una società che si tutela con le sue leggi. Ma non succede così, e con me indirettamente ha pagato e continua a pagare tutta la mia famiglia. Per fare questo articolo, a cui tengo particolarmente, inizialmente ho consultato i miei famigliari, chiedendo loro di scrivere qual è stato l’impatto che il mio arresto ha avuto sulla loro vita. Non renderò note le risposte che ho ottenuto per rispetto nei loro confronti e per preservare gelosamente i loro sentimenti più profondi. Non mi sono mai sentito così cosciente come ora di quanto sia stato devastante il mio arresto più per la mia famiglia che per me. In loro è emersa una sorta di pudore nei confronti di un dolore datato ormai molti anni ma ancora vivo e costantemente rinnovato. Chi dice che ci si abitua a tutto sbaglia! Chiedo loro scusa per aver voluto riaprire una ferita purtroppo mai rimarginata. L’aver condiviso con me venti anni di galera vuoi dire aver "girato" la penisola dal sud (Favignana, Palermo, Trapani, Potenza) sino all’estremo nord, lunghi e massacranti viaggi per 60 minuti di colloquio (qualche volta 120 minuti) con un marmo gelido come divisorio e con tutte le frustrazioni che questo comporta. E poi l’amarezza che resta quando senti: "FORZA ANDIAMO! IL COLLOQUIO E’ FINITO…!".
Nel numero zero del nostro giornale abbiamo cominciato ad affrontare il tema dell’affettività in carcere. Ora, che sembra stia per partire una specie di progetto sperimentale in materia (a Venezia e Pisa, dicono), pensiamo che valga la pena approfondire il processo di distruzione dei legami famigliari che deriva quasi sempre dalla detenzione. Il Consiglio d’Europa (organizzazione supernazionale con sede a Strasburgo, che si occupa in particolare di protezione e sviluppo dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali) ha recentemente studiato, in una dettagliata ricerca, i problemi psicologici, economici e morali che la famiglia di un detenuto deve affrontare, e ha poi rivolto un preciso invito agli Stati membri: "Di fronte agli effetti negativi della detenzione sul piano famigliare e sociale, effetti che contraddicono direttamente la funzione di reinserimento e di riabilitazione, l’assemblea invita nuovamente con forza gli Stati membri a praticare un ricorso più limitato alle pene di reclusione".
Intere famiglie condannate a scontare una pena Con la reclusione infatti non è solo il detenuto che paga il suo "debito": per riflesso è l’intero nucleo famigliare a subirne gli effetti. Se per esempio è un padre ad essere incarcerato, viene a mancare un punto di riferimento maschile per i figli, che subiscono per questo forti scompensi sul piano affettivo e psicologico. Inoltre, l’improvviso cambiamento della situazione economica della famiglia può provocare brusche ed immediate cadute sociali. Ma carcerazione significa anche interruzione dei rapporti affettivi e sessuali, e la ripresa del rapporto di coppia, dopo che viene scontata la pena, può essere molto difficile, se non addirittura impossibile. E’ per questo che gli esperti del Consiglio d’Europa affermano: "La rottura affettiva e sessuale durante la detenzione è in netta contraddizione con la funzione di reinserimento o di riabilitazione della pena". Ma anche il rientro del detenuto nel "tessuto sociale lavorativo" è un problema rilevante per la famiglia. Se una persona che è stata in prigione, per non precludersi una opportunità lavorativa, nasconde al datore di lavoro i suoi precedenti penali, quest’ultimo, se ne viene a conoscenza, può licenziarlo come persona inaffidabile. Nel caso opposto in cui dichiari in tutta sincerità propri trascorsi, si vede spesso (quasi sempre purtroppo) sbattere "con gentilezza" la porta in faccia. Questo è un ulteriore scotto da pagare, e quindi l’effetto della carcerazione non termina con il fine pena ma si protrae nel tempo, anche perché, al momento dell’uscita dal carcere, il detenuto che non ha una famiglia solida alle spalle, e possibilmente un’attività in proprio, è già "fortunato" se riesce a reperire solo lavori manuali di basso profilo, poco gratificanti, precari, sotto pagati e spesso senza copertura contributiva. L’alternativa è purtroppo, quasi fatalmente, tornare a delinquere ed essere risucchiati nuovamente nella spirale carcere, e per molte persone il ciclo si ripete più volte... sino alla distruzione totale, famigliare, affettiva e psicologica, e al rifugio ultimo nella droga o nell’alcool. Bisognerebbe allora pensare ad un più efficace circuito di assistenza alle famiglie dei detenuti ed agli stessi una volta liberi, se non si vuole che un episodio occasionale finisca per disintegrare, sotto tutti i punti di vista, un intero nucleo famigliare. Anche perché si tratta di nuclei famigliari nei quali, come dice il documento del Consiglio d’Europa, tutti i membri sono "segnati" a vita dalla condizione di detenzione di un loro congiunto: "Questa bollatura… si manifesta sotto diverse forme che vanno dall’emarginazione, allo sfruttamento, passando attraverso l’isolamento, la diffidenza e il sospetto". Sono, questi, atteggiamenti che trovano un terreno particolarmente favorevole in luoghi come il vicinato e la scuola: basta pensare a certe reazioni crudeli dei compagni di scuola, che con la formula "Tuo padre è un carcerato" sono capaci di distruggere tutta la sicurezza e l’equilibrio di un ragazzo. La bollatura della donna detenuta, poi, sembra ancora più tenace e costituisce un handicap a volte insormontabile. E’ da qui che si deve partire, per ricordare continuamente a chi vive nel mondo esterno che a scontare la pena deve essere il detenuto, e non tutti i membri della sua famiglia.
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