Il “passo del gambero”

L’ostacolo più grosso del dopo carcere è riuscire a cancellare quel senso di impotenza nei confronti del mondo esterno, e convincersi che abbiamo le potenzialità ed i numeri per farcela

 

di Nicola Sansonna, ottobre 2006

 

Non è facile tentare di capire come mai una persona con un quoziente intellettivo nella norma anche dopo aver provato la durezza della reclusione, l’allontanamento dagli affetti, l’esclusione dalla società civile, decide che per lui è più conveniente commettere un nuovo reato. Anch’io ho fatto il “passo del gambero…” per due volte nella mia vita. La mia situazione con la Giustizia poteva essere risolta nel 1988, ma sono scappato da un permesso e sono stato arrestato dopo diciotto mesi e accusato di una serie di rapine in banca. Un’altra occasione l’ho avuta nel 1995, ma ho resistito sei mesi in articolo 21 (lavoro all’esterno) e poi sono stato arrestato nuovamente, sempre per una rapina in banca. A parte queste parentesi sono detenuto dal marzo 1977.

Analizzando cosa mi ha spinto a decidere la fuga e a commettere nuovi reati nel 1988, la prima cosa che mi viene alla mente è: la voglia di rivalsa. Ero stato condannato, e giustamente, ad una pena lunga, la stavo scontando. Ero entrato in galera che avevo appena compiuto diciannove anni e uscivo in permesso che ne avevo trentuno. Del mondo non avevo visto quasi niente, avevo voglia di fare! Di vederlo! Di avere una donna! Il problema dei problemi per me è stata sempre la fretta nel raggiungere i risultati.

Volevo recuperare il tempo perduto… come si usa dire, ma ho capito poi con il passare degli anni ed in quelle interminabili notti in carcere, in cui la tua vita ti scorre davanti come un brutto film che non vuoi vedere, che il tempo lo si vive giorno per giorno e non lo puoi “recuperare” mai. Diciamo che il mio personale motivo che mi ha portato a commettere nuovi reati nel 1988, dopo undici anni e mezzo di carcere, è stato esattamente questo, la voglia di “riprendermi indietro” il tempo trascorso in galera.

Nel 1995 le cose erano cambiate, mi ero diplomato geometra, uscivo e lavoravo per il Comune di Bologna, avevo avuto ottime opportunità. Ero anche un po’ più maturo, ma non abbastanza, quella maturità non è bastata a farmi desistere dal rapinare un’altra banca. Vedo quell’episodio come un vero suicidio sociale! Era per me un buon periodo: lavoro, amici una ragazza che amavo. Poi accadde qualcosa che sconvolse il mio equilibrio. Fui lasciato, secondo me senza una ragione seria, dalla ragazza e qualcosa scattò in me, come se non me ne fregasse più niente del mio destino.

“Sono nato in carcere, morirò in carcere”, pensavo. Non mi interessava assolutamente niente, ero diventato insoddisfatto, quello che facevo mi piaceva sempre meno, probabilmente senza rendermene conto ero scivolato in una sorta di depressione molto dolorosa, e cara da pagare in termini di anni di galera. Condannato a quattro anni, tra revoche e cose simili mi ritrovai con altri dodici anni da scontare.

 

Non voglio farmi prendere dall’ansia dei risultati

 

Era evitabile questo ritorno al delitto? Chissà se le cose avrebbero potuto andare diversamente… se fossi stato vicino alla famiglia forse… se non avessero assassinato, nel ’92, mio padre, con cui avevo un progetto di lavoro insieme, forse… se non fossero morti pochi mesi prima due miei fratelli, uno di ventinove anni in un incidente d’auto ed un mese dopo l’altro di ventisei anni suicida, forse…. Se, ma, forse. Tutte ipotesi, congetture. La realtà è che commisi nuovi reati.

Ne ho visti passare per la galera, uscire e poi tornare tanti, in ventotto anni di carcere… “Ma che cazzo ci fai ancora dentro? Sei uscito da pochissimo!”: quante volte ho pronunciato questa frase! Avevamo quasi imparato a conoscere le persone e la loro reale possibilità di restare fuori. Su qualcuno ci potevi pure scommettere, che lo avresti rivisto presto. Franchino che era in cella con me a Bologna al giudiziario nel 1992 mi disse: esco se trovo un buon lavoro, una ragazza, una casa, non voglio più tornare a fare cazzate, altrimenti un colpo in banca e mi sistemo! Fu riarrestato dopo un mesetto circa. Non aveva casa, né lavoro, la ragazza quella l’aveva trovata, ma vivere senza lavoro è dura.

Credo che dipenda molto anche da cosa pretendi tu dalla vita che ti si presenta davanti. La fretta che metti nel raggiungere un obiettivo. Io ho imparato a spezzettare i problemi, li vedo nella loro totalità ma li affronto un po’ alla volta senza farmi prendere dall’ansia dei risultati. So che ogni cosa, seppur piccola, che ottengo è un piccolo successo, e quindi non è un fallimento il fatto che, dopo due anni che sono fuori, io non abbia ancora la casa. È un successo che ho preso la patente. È un successo che ho un lavoro che mi piace e che mi permette di vivere decorosamente. È un successo il fatto che ho rafforzato i rapporti con tutta la mia famiglia. È un successo che ho tanti amici ed amiche. Reputo un successo il fatto che è dal 2001 che vado in permesso e ho sempre rispettato tutte le prescrizioni. Sono un successo questi due anni di lavoro esterno.

Penso che sovente la recidiva nasca dall’insoddisfazione della persona per ciò che fa, per ciò che è diventata, per le scarse prospettive che vede davanti. Ma l’ostacolo più grosso è riuscire a cancellare quel senso di impotenza nei confronti del mondo esterno, e convincersi che abbiamo le potenzialità ed i numeri per farcela. Ma certo “farcela” non è facile per nessuno, ed ancor meno quindi per un ex detenuto, anche quando torna ad essere una persona libera.

Ecco perché non mi piace parlare di recidiva, come se fosse un fenomeno uguale per tutti, semplice da capire e da condannare. I perché della recidiva? In realtà sono davvero, parafrasando Pirandello: Uno. Nessuno. Centomila!