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Quando ci si trova a vivere da migranti non si guarda in faccia nessuno
La legge della sopravvivenza non va molto d’accordo con la solidarietà
Di Nabil Tayachi, novembre 2000
Nabil è uno che in Italia le ha davvero passate tutte. Qui ritorna su certe sue avventure napoletane, dove l’unica "accoglienza" che trova è quella dei vagoni di treni abbandonati e delle cabine di camions rottamati. Oggi, dopo aver sperimentato il carcere, è fuori e sta facendo un percorso che dovrebbe portarlo alla regolarizzazione. Noi naturalmente speriamo che nel nostro paese alla fine trovi qualcosa di meglio di quello che ci descrive nei suoi articoli.
"E’ impossibile trovare un posto per dormire": questa è la frase con la quale ogni tunisino (o quasi) in Italia ti risponde. Non è assolutamente vero che c’è solidarietà tra connazionali, è più facile trovarla da altri immigrati, per pietà o per aiuto, perché il buono e il cattivo ci sono in tutte le razze. È anche vero che questo paese (il vostro) ha contribuito a peggiorare tante persone, invece di migliorarle, ha peggiorato anche dei miei amici e fratelli, ragazzi che sono nati nel mio stesso quartiere di Tunisi e con i quali sono cresciuto, giocando e studiando e facendo tante altre cose. Questo è il bello della vita nei quartieri popolari. Non c’era un posto, al mare, al cinema, al caffè, allo stadio, nel quale non andavamo assieme; eravamo semplici e quello che avevamo lo dividevamo sempre, i nostri padri non erano ricchi, eppure non ci è mai mancato nulla. L’Italia è invece "Il paese dove ognuno si fa i cazzi suoi", che vuol dire che qui devi arrangiarti per vivere, perché nessuno ti dà niente e neanche ti ospita, se non hai soldi nessuno te li dà. Prima devi avere il permesso di soggiorno, e così la maggior parte degli immigrati vivono da clandestini, anche se sono entrati con il passaporto. E così vengono sfruttati da padroni senza scrupoli, che li fanno lavorare in nero, come è successo a me quando ho lavorato all’autolavaggio, dodici ore al giorno, domenica compresa. Lo so che lui, il proprietario, mi sfruttava, ma avevo bisogno di quel lavoro, l’unico che avevo trovato in questa terra straniera dov’ero appena arrivato, senza avere amici né familiari, senza conoscere nessuno. Ma per me non importava, perché ero una persona per bene ed era meglio un lavoro qualsiasi che rubare o combinare altre cazzate. Quello era soltanto il sud dell’Italia e il mio obiettivo era di arrivare al nord, per fare altri lavori e guadagnare e mostrare ai miei che ero bravo. Ho cominciato a farmi conoscere nella zona, dopo il lavoro frequentavo una famiglia che aveva un’attività di parcheggi abusivi e così cominciai a dargli una mano ed a guadagnare un po’ di soldi. Loro vendevano anche sigarette di contrabbando, ma io non ci stavo, perché ogni giorno vedevo la Finanza che gli correva dietro; a volte i finanzieri si fermavano e loro gli regalavano qualche stecca di sigarette, così li lasciavano guadagnarsi il pane.
"Ma è vero che voi scambiate le donne bianche con i cammelli?" Gli italiani, in quel periodo, erano convinti che noi immigrati fossimo venuti in Italia per scappare dalla fame. Mi ricordo molto bene di una signora, venuta per parcheggiare, che mi ha chiesto da dove venivo. "Sono tunisino", le rispondo. "Per fortuna", mi dice lei, "ho trovato uno di questo paese". Il fatto è che lei ha deciso di andare in vacanza in Tunisia e non si fida di quello che le fanno vedere all’Agenzia di Viaggio. Pensa che tutti noi tunisini siamo venuti in Italia per mangiare, perché a casa nostra facciamo la fame. All’Agenzia le hanno descritto la Tunisia come un paradiso, lei non ci crede e vuole sapere la verità da me. "Ma avete da mangiare in Tunisia?". "Per noi, magari no, ma per voi turisti c’è tutto, come foste in Italia". "Avete le macchine?". "Ma voi, signora, pensate che uno che non ha nemmeno da mangiare possa avere la macchina? Ci sono le agenzie che affittano le macchine, ma soltanto per voi turisti". "Avete le case e gli alberghi?". "Abbiamo tutto quanto, per noi non servono le case, nelle oasi basta una coperta e una palma da datteri, non serve nemmeno la branda, perché dormiamo sulla sabbia del deserto". "Ma è vero che voi scambiate le donne bianche con i cammelli?". "Signora, stai tranquilla, in Tunisia non ci sono nemmeno più i cammelli; li abbiamo ammazzati tutti per mangiarceli, prima di essere costretti ad emigrare in Italia per la fame. Perciò vai tranquilla che in Tunisia trovi soltanto la sabbia e tutti i lussi che sono preparati apposta per voi". "Grazie, Alì, sei un bravo "guaglione". Piano piano in quella zona di Napoli sono diventato famoso: impiegati, medici, ragazzi e donne, ogni volta che passo in un vicolo qualcuno mi chiama a chiacchierare e mi invita a mangiare, così finisco seduto alla loro tavola. Anche per lavarmi i vestiti e per fare la doccia non ci sono problemi, entro in una casa e mi fanno fare come fossi a casa mia. Piano piano ho fatto amicizia con il proprietario di un bar, sua madre lavorava alla cassa e lui al bancone: ogni sera, verso le sette, andavo da lui a fargli compagnia. All’ora che arrivavo io, la madre se ne andava e così il bar cambiava aspetto; c’era chi si faceva uno spinello, chi tirava la "roba" e così via. Sembrava di stare in una discoteca, con la musica a tutto volume e ragazzi e ragazze sballate. "Alì, ne vuoi anche tu?", mi chiedevano. "No, io voglio solo bere". Allora cominciavano a prendermi in giro, una ragazza mi diceva: "Alì, mia sorella non dorme più tutta la notte, perché pensa sempre a te". "Io farei una strage per averti, lascio il mio fidanzato per stare con te", mi diceva un’altra. Poi tutti si mettevano a ridere. Un po’ alla volta ho scoperto che quel bar apparteneva ad una famiglia che non era solo di gente buona, brava, ma anche "di rispetto". Sono numerosi come una squadra di calcio e quando invitano nel bar gli amici più stretti i vicoli si svuotano, perché lì sono tutti loro amici intimi. In giro sembra ci sia il coprifuoco. Ogni sera vado in quel bar e trovo da bere e da mangiare, perché la madre del proprietario mi offre primo, secondo e contorno ed anche un mezzo litro di vino rosso.
La prima sistemazione per dormire che ho trovato era la cabina di un T.I.R. La prima sistemazione per dormire che ho trovato era la cabina di un T.I.R., sotto il muro del porto di Napoli. A vederla da fuori, sembrava l’avessero fabbricata nel Medio Evo, tanto era ridotta male, ma dentro era dotata di tutti i comfort: quattro brande con tanto di materassi e, in fondo, un letto matrimoniale. Non era facile trovare un posto per dormire e non era neanche facile rimanere in quel posto, perché era occupato da altri tunisini, gente che non avevo mai visto prima, che mi diceva sempre di non portare mai nessuno con me, quando loro non c’erano, altrimenti mi avrebbero cacciato. Per due settimane sono andato nella cabina a dormire da solo, poi loro sono tornati per due notti. Quando rientravano io facevo finta di dormire, ma loro mi portavano qualcosa da bere, o una pizza, così dovevo alzarmi. Erano tossici, andavano sempre a Roma o a Firenze per fare le loro cose, poi tornavano a Napoli per riposare un po’. In quel posto io avevo una paura della madonna, ma non di loro: avevo paura che arrivassero gli sbirri e trovassero qualcosa, così sarei stato rovinato, insieme con loro. Intanto avevo chiesto anche al custode di un parcheggio abusivo vicino all’autolavaggio che mi facesse dormire in qualche baracca o in qualche cabina di camion, ma lui mi aveva risposto che, se volevo un posto per dormire, ogni sera dovevo portargli una birra grande. Pur di non dover più stare con gli altri tunisini accettai anche questo sfruttamento, ogni sera gli portavo una birra grande e lui mi faceva dormire nella comoda cabina di un T.I.R. A volte gli portavo solo una birra piccola, allora lui non mi lasciava salire su un camion, e mi toccava passare la notte in una macchina, al freddo. Ogni tanto dovevo alzarmi, uscire e camminare un po’ per scaldarmi e, una volta, ho visto il custode che rubava la benzina dalle macchine che avrebbe dovuto sorvegliare. Lui prima era vigile urbano, ma era stato licenziato perché i carabinieri l’avevano sorpreso a rubare una ruota dal bagagliaio di un’automobile. Dopo quella notte decisi di andare a dormire sui treni in sosta alla stazione, un posto che noi chiamiamo "la paura", non ho mai capito il perché. Nelle cuccette dei treni si dorme molto bene, ogni sera, con il gruppetto di amici che ho trovato, saltiamo il muro della stazione e via… ma lì dentro troviamo tante persone che sono arrivate prima di noi: tossici, vecchi, uomini e donne, immigrati di tutti i colori. In quel posto era molto facile essere rapinati, anche dei pochi soldi che avevi. Per tutta la notte si sentivano rumori e lingue di tutti i tipi, alla porta si sentiva bussare spesso, ma nessuno si fidava ad aprire. Una sera, sono arrivati gli sbirri: mi alzo spaventato, al rumore dei bastoni sul ferro della carrozza e loro gridano di uscire tutti e in fretta, che sono la polizia. Apro la porta ed esco per primo, così prendo una bastonata sulla schiena, mani sulla testa corro lungo il corridoio, cercando di prendere meno bastonate possibile. Scendiamo tutti dal treno, siamo un centinaio, loro sono una ventina; continuo a toccarmi dove ho preso le bastonate e mi fa male. Ci dicono di andarcene e di non tornare più. Sono le tre di notte. Che vita di merda. Entro nel bar della stazione e bevo un caffè. La piazza è vuota, c’è solo qualche prostituta intorno ad un barile con il fuoco acceso, per scaldarsi. Decido di andare da un mio amico, che vende fiori e piante sui marciapiedi, e lo trovo che dorme in macchina. "Ciao Diego". "Ciao, Alì, cosa fai in giro a quest’ora di notte, che domattina devi andare a lavorare presto". "Non dirmi niente, per piacere, che mi hanno pure bastonato". "Dimmi soltanto chi è che ti ha bastonato, che lo ammazzo!?". "Ma sei matto, sono stati gli sbirri!". "Maledetti figli di…, ma che cosa hai combinato?". "Niente, sono solo andato a dormire su un treno, niente altro". Da quella notte ho iniziato ad andare a dormire in ospedale. Prima mi fermavo a chiacchierare una mezz’ora con il vigile addetto alla sorveglianza, poi entravo e stavo ancora un paio d’ore a scherzare con gli infermieri, finché mi lasciavano dormire in qualche ufficio. L’ospedale di Napoli è sempre pieno, perfino nei corridoi ci sono malati stesi sui carrelli. La mattina mi svegliavo e andavo al bar del mio amico Massimo, prendevo un latte macchiato e quattro brioche e poi andavo a lavorare. Non avevo molta voglia di lavorare, perché ero già stanco prima di cominciare, ma dovevo andare lo stesso. Finché non ne ho potuto più, e sono scappato da Napoli per cercare fortuna (o sfortuna) altrove.
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