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Storia di un portiere di calcio…
Partito con la voglia di fare fortuna da un quartiere di Tunisi, dove giocava come professionista, ora gioca nella squadra del 6° B sezione giovani adulti del carcere Due Palazzi di Padova
Di Hatem Mhimda, gennaio 2001
Devo dire in tutta onestà che non sono molto soddisfatto dell’ultimo "ingaggio", proprio per niente! Non vedo l’ora che termini… Militavo in una squadra di promozione del campionato tunisino, il mio ruolo: portiere. Avevo dei buoni ingaggi, perfino l’abbonamento del pullman e del treno pagato. Un giorno però decisi di cambiare squadra. Avevo sentito, da amici, che in Europa si guadagnava bene. Questa fu una delle molle che mi spinse a partire. Il mio sogno era di farmi ingaggiare da un club italiano, di qualsiasi serie. Mi sarei fatto conoscere e chissà, forse avrei potuto giocare in serie B, oppure in serie A. A volte nella vita, per riuscire a dare un senso all’oggi, dobbiamo cercare nel nostro passato quelle ragioni e quella voglia di farcela che può capitare di smarrire strada facendo. Io ancora non l’ho persa, quella voglia! Raccontare oggi le emozione che ho vissuto parecchi anni addietro è, per me, molto importante... e chissà che non possa essere utile anche ad altri leggerle.
Era il 1990 ed avevo quasi 17 anni, erano anni sereni in cui niente faceva presagire quello che sarebbe successo da lì a poco, ero una giovane promessa del calcio tunisino. Abitavo nel quartiere Cite Iben Sina, situato ad alcuni chilometri da Tunisi. Questo quartiere era stato costruito, di sana pianta, da una ditta italiana. Una zona residenziale su modello europeo. Nata per accogliere gli emigrati che, fatta fortuna all’estero, tornavano in patria e potevano acquistare casa in una zona tranquilla. Il nome del Quartiere, Cite Iben Sina, deriva da un noto medico islamico, probabilmente la scelta del nome non è stata casuale visto che nella zona risiedono molti medici. Io abitavo lì con i miei familiari, frequentavo la Scuola Superiore di Informatica, un nuovo Istituto aperto da poco. La mia passione, quasi una ragione di vita, era il gioco del calcio. Già dall’età di dodici anni giocavo nelle giovanili della società C.S.C.F., un grosso gruppo sportivo appartenente alle Ferrovie dello Stato. In Tunisia anche se si è ragazzi bisogna firmare un contratto in esclusiva, con la squadra in cui si va a giocare, per la durata di cinque anni. Quello che può fare lo sport per i ragazzi è molto utile e costruttivo. Tutti i ragazzi dovrebbero poterlo praticare. Io ho un figlio che ha tre anni e cercherò di dargli la possibilità di praticare qualche sport, quando poi sarà nell’età della ragione deciderà da solo se continuare o no. Le emozioni che lo sport può dare, il calcio in particolare, sono immense. Il ruolo del portiere è un ruolo particolare. Tutto il peso della partita è sulle spalle di questo "povero disgraziato" che è il portiere. Le parole dell’allenatore e quelle dei miei compagni risuonano ancora oggi nelle mie orecchie. Parole giuste, non lo metto in dubbio ma, a dire il vero, anche stressanti a forza di sentirsele ripetere: "Stai attento, non uscire…, non aver fretta a rilanciare il gioco…, sei il primo attaccante…, hai la visione di tutto il campo…". Basta, ma chi me lo ha ordinato di giocare in un ruolo simile?! A casa mia era la stessa musica, la sensazione che avevo era che si volesse caricare sulle mie spalle tutte le responsabilità del mondo. La gestione della famiglia era divisa tra mio padre e mia madre. Lei faceva tutto, lui niente. Mia madre si occupava della gestione della casa, si prendeva cura di noi e dei problemi che in pratica tengono occupate tutte le casalinghe del mondo. Ma il suo compito non finiva lì! Infatti, doveva occuparsi anche della gestione dei due negozi di macelleria che possedevamo. Era lei che curava gli affari, teneva riforniti i negozi contrattando coi fornitori. Mio padre conosceva solo poche parole: "mai himmnic, dabber rasek" che tradotto significa: "non me ne frega niente…", semplicemente, si disinteressava di tutto. Aveva fatto il carrozziere per anni ed era stato anche bravo, ad un certo punto aveva deciso di andare in pensione, aveva cinquantadue anni. Da mio padre non ricordo di avere ricevuto mai un consiglio, mi è mancato molto come punto di riferimento. Forse siamo stati anche amici, ma sento che avevo bisogno di una guida in quegli anni, non solo di un amico. E lui non era né l’uno né l’altro. Il mondo dello sport, in un certo senso ha sopperito a questa mancanza. Anche se, certe volte pareva che stessi andando all’inferno o che stessi facendo un combattimento all’ultimo sangue, mentre era "solo" una partita. Questo per l’impegno che ci mettevo e per le continue sollecitazioni, a fare sempre meglio, che ricevevo dall’allenatore e dai miei compagni di squadra. Entrare in campo e vedere gli spalti gremiti, è un’emozione fortissima, fa pensare al giorno del giudizio, quando Dio giudica tutti. Si comincia! Io, sempre isolato, ma nello stesso tempo preso di mira da tutti, sia dai giocatori che dagli spettatori, sono sempre lì, in mezzo ad una porta, che devo difendere dagli assalti degli avversari... tutto questo somiglia molto alla mia vita. A volte ho sofferto il caldo, altre il freddo rimanendo sotto la pioggia per tutta la durata della partita. Certe volte ho sperato che qualche tifoso mi portasse un ombrello per ripararmi dalla pioggia o che un giorno avrebbero inventato dei guanti autoriscaldanti. Quando giunsi in Europa vissi qualcosa di molto simile: la gente mi guardava come se fossi una rarità. In Germania a noi stranieri ci prendevano di mira. Anche se non capivo la lingua, il senso era inequivocabile. Mi sembrava di essere finito nella tribuna della squadra avversaria con la maglia e la bandiera della mia squadra… Ero allenato a questo, ben allenato anche a subire i falli dei giocatori avversari… e sembrava che la polizia volesse rivestire quel ruolo… tanto per non farmi perdere la forma e mantenermi in allenamento. Con la mia squadra, prima dell’inizio del campionato, ci portavano in ritiro, ma poteva accadere anche durante il campionato, se i risultati erano deludenti che ci rispedissero in ritiro. Ci portavano a Djebal El West, un villaggio sportivo situato in un posto fantastico, con mare Mediterraneo di fronte ed alle spalle le colline di Djebal. Le regole erano ferree. Sveglia alle sette e mezza, colazione e poi, alle otto e trenta, in campo per gli esercizi fisici a corpo libero. Si mangiava a mezzogiorno, quindi riposo in stanza. Nel pomeriggio c’era la partita d’allenamento, al termine doccia e cena, subito dopo riunione per stabilire tattiche, schemi e ruoli. Alle ventidue, come le galline, tutti a letto.
Quando, stanco per la marcatura stretta che mi facevano in Germania alcuni tedeschi ed i poliziotti, decisi di cambiare aria, mi trasferii in Francia. Prima a Parigi e dopo a Nizza Anche qui la "marcatura era molto stretta", la Police Française gioca pesante… sempre al limite dell’espulsione… però, in sostanza, ad ogni fermo rischiavo io l’espulsione, perché i miei documenti non erano in regola. In Francia, quando c’è un fermo di polizia ed i documenti non risultano in regola, vieni accompagnato alla versione di lusso di quelle gabbie che qui in Italia chiamano centri di prima accoglienza. Ti accompagnano in una struttura più vicina a un ostello per stranieri o ad una pessima pensione, ma niente a che vedere con il carcere, in pratica eravamo agli arresti domiciliari, però c’era un campetto in cui si poteva giocare a pallone. Le regole erano molto simili a quelle in atto al villaggio sportivo in cui andavamo in ritiro a Djebal El West, il tempo di questo "ritiro" un po’ più di due mesi. Se la tua identità veniva accertata, venivi accompagnato all’aeroporto ed espulso immediatamente, l’unica speranza per me era che non ci riuscissero, così dovevano semplicemente lasciarci andare. A me accadde esattamente questo. Ripresi a muovermi tra Nizza e Parigi in cerca di una sistemazione e di un po’ di fortuna, ma trovare lavoro senza documenti in Francia è praticamente impossibile. La vita scorreva veloce ed io lì ad attendermi qualcosa da lei. Ero come quando in porta aspettavo quella maledetta palla, ad attendere con ansia come puoi aspettare una fidanzata che non arriva mai… ero sempre teso, guardavo in tutte le direzioni per essere sempre pronto, ecco, si stanno avvicinando, la palla va a destra e a sinistra, e ad un tratto uno dei nemici spara un fortissimo tiro, il pallone arriva veloce, anzi velocissimo e fra me e me penso anche di girarmi, di non affrontare questa responsabilità, penso di buttarmi dalla parte opposta, ma non c’è neanche una deviazione, allora decido di seguire la traiettoria, pregando Dio di scampare a questa fastidiosa situazione, allargo le braccia dicendo con occhi socchiusi: Dio, Dio sto per toccarla, fortunatamente la palla, la palla… Due manganellate alla testa mi riportarono alla realtà… non era una partita ma una retata della Polizia. Mi ero addormentato mentre attendevo un amico e la Polizia aveva fatto irruzione. La partita andava avanti, ed ero in pensiero, guardavo il cielo. Poi, ringraziando Dio per la sua benevolenza e il suo aiuto, fui rilasciato, ma mi fecero il foglio di via da Nizza Mi unii ad un amico palestinese e decidemmo insieme di tentare la fortuna in Italia. Lui fu più fortunato di me, trovò subito lavoro a San Remo come lavapiatti. Restai con lui tre giorni poi partii per Padova, dove sapevo che c’erano molti miei paesani. Iniziai anch’io a giocare scorretto, mi misi con loro a spacciare droga. Quello che temevo accadesse, poi accadde davvero. Subii ben più di un gol, fui arrestato per spaccio di sostanze stupefacenti: eroina. In quel momento risentivo tutte le raccomandazioni del mio allenatore e di mia madre, così ora ho molto tempo per pensare alla scemenza che ho fatto. Chissà come finirà la partita, qui, nel ritiro del Due Palazzi. Sono tutti calmi, e io mi sento come quando nello spogliatoio stavo aspettando le critiche per un gol subito. L’ingaggio con la squadra del sesto B, sezione giovani adulti, durerà per altri dieci mesi, con un "ritiro" che dura da quasi quattro anni, esattamente da luglio ‘96. Mi piacerebbe aprire gli occhi una mattina e sentire le urla dell’allenatore che grida: svegliati, sei sempre in ritardo in campo. E ricominciare la partita della vita, questa volta seguendo le regole.
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