Il ritorno in carcere, un fallimento personale

 

lI senso di impotenza e di frustrazione che prova una persona alla quale è stato revocato, seppur a ragione, un beneficio

 

di Mauro Cester, ottobre 2005

 

Sono in carcere dal 1990 e ci sono entrato da incensurato. In questo istituto poi ci sono dal 1991 e circa un paio di anni fa, dopo un periodo in cui ho fruito dei permessi premio, sono stato ammesso al cosiddetto “trattamento extramurario”, che nel mio caso è consistito nella concessione della semilibertà, poi revocata. Parlo quindi con cognizione di causa perché, purtroppo, mi sono accorto, a mie spese, che la realtà tradisce le nostre aspettative, anche se non in tutti i casi, per fortuna. O forse noi non siamo in grado di affrontare adeguatamente le difficoltà che ci si presentano. Mi riferisco alla semilibertà o all’articolo 21, il lavoro all’esterno: in un solo anno, in questo istituto, sono state revocate tali misure ad almeno una ventina di detenuti, me compreso, per infrazioni alle “regole” del programma trattamentale al quale bisogna attenersi. Infrazioni che non porterebbero mai in carcere una persona libera, e bisogna tenere ben presente che solo pochissimi semiliberi rientrano per aver commesso veri e propri reati.

Solo nella sezione dove mi trovo io, nell’ultimo anno siamo stati “chiusi” in otto. Sia chiaro che la mia non è una testimonianza vittimistica, essendo io reo di ben due infrazioni al programma, ma se ci sono tante revoche significa che sicuramente qualcosa non va, a partire dalla nostra superficialità e dalle difficoltà che, personalmente, ho incontrato fin dal primo giorno in cui ho cominciato ad uscire. E se qualcosa non va, è meglio discuterne, e lo faccio parlando di me.

Dopo 13 anni di carcere, mi sono trovato in strada ad aspettare un autobus che quel giorno non passava, oppure mi è capitato di prendere quell’autobus in senso contrario, così, invece di andare a destinazione, mi sono ritrovato in stazione. Eppure non sono un imbranato: ho girato e guidato in mezza Europa, ma semplicemente non ho molta dimestichezza con i mezzi pubblici. Ed è difficile dover imparare tutto in fretta.

Sulla mia revoca è scritto che ho tradito la fiducia dei vari operatori. So benissimo che quando un detenuto viene “chiuso” dispiace un po’ a tutti, ma secondo me sarebbe importante conoscere anche come vive la revoca il detenuto stesso, che in fin dei conti, se non ha commesso reati ma “solo” un’infrazione alle regole di comportamento, ha fatto ben più male a se stesso ed a chi gli vuole bene che non alla società. Vi assicuro che il ritorno in carcere viene vissuto come un fallimento personale, per il quale si crea uno stato d’animo che rende tutto ancora più travagliato.

Mi è capitato che dopo 14 anni sono stato autorizzato ad andare un giorno al mare, e il pomeriggio seguente ero in una cella in isolamento. Dieci giorni in un buco infernale, senza niente, nemmeno il televisore. Vorrei che qualcuno mi spiegasse a cosa serve un tale trattamento, visto che, tra l’altro, un’accoglienza del genere non è mai stata riservata neppure a quelli che sono stati chiusi dalla semilibertà per aver commesso un reato. Parlando con gli altri ex semiliberi, mi sono reso conto che l’esperienza della revoca è vissuta ben peggio della fase dell’arresto, che dovrebbe invece essere la più traumatica.

Quando sono uscito ho fatto veramente il possibile per non fare ritorno in carcere, ma è stato inutile. A mio modo di vedere, i programmi risocializzativi spesso si rivelano scarsamente consoni a quelle che sono le vere esigenze dei detenuti, e quel poco che si è costruito attraverso anni di carcerazione può essere dissipato perché si viene trovati in possesso del cellulare o perché si è fuori percorso, solo per fare qualche esempio. Certo, non tutti i magistrati revocano una misura alternativa se capita che un detenuto non rispetti una prescrizione, ma succede che ci siano anche magistrati intransigenti e poco disposti a capire.

Durante la mia semilibertà, appena la mattina uscivo dal carcere per andare a lavorare, non mi era permesso neanche di passare da casa, casa che divido con la mia fidanzata che è una persona che non ha mai avuto a che dare con la giustizia. Eppure l’abitazione era inserita nel mio programma trattamentale come punto di riferimento, l’ho affittata appositamente vicino al carcere, con non poche difficoltà anche economiche, appunto per poterla utilizzare con meno problemi. Sono riuscito a trovare anche il lavoro nello stesso comune, ma non potevo rincasare neppure a mezzogiorno perché avevo il divieto di allontanarmi dal posto di lavoro per la pausa pranzo. Così, pur essendo a cinque minuti da casa, dovevo consumare un frugale pranzo “al sacco”, in uno stanzino-ripostiglio naturalmente non adibito a mensa, o il più delle volte standomene “comodamente” in piedi nel cortile dell’azienda. Quanti panini mi sono mangiato allungando l’occhio verso casa, pensando a chissà quale “tremendo” pericolo avrei potuto causare alla società nel percorrere quei pochi chilometri per andare a mangiarmi un piatto di pasta calda sul tavolo di casa mia…

A fine lavoro, invece, ero finalmente autorizzato ad andare nella mia abitazione. In quel momento, invece di provare serenità, finiva col montarmi l’insofferenza: “Perché ora sì e prima no?”, mi chiedevo sempre. I giorni festivi poi dovevo trascorrerli dentro. Per più di un anno sono andato avanti con questo sistema, poi ho acquistato o forse mi sono guadagnato una dose di libertà maggiore, ma sempre con canoni ben distanti da come noi detenuti immaginiamo le misure alternative prima di uscire, quando pensiamo che siano tutte rose e fiori. I benefici dovrebbero servire a farci tornare gradualmente alla libertà, quindi anche a farci ragionare come degli adulti veri e con un briciolo di autonomia, invece sembriamo degli automi che vanno a comando e che non sono in grado di gestirsi il benché minimo spazio.

Prima di uscire ero rimasto quasi stupito per le meravigliose qualità che gli operatori avevano scritto sulla mia sintesi, per il mio percorso meritevole di fiducia, per la responsabilità che avevo dimostrato in 12-13 anni di carcere. Mi ero impegnato ed avevo dato il meglio di me stesso per costruirmi quello straccio di “curriculum”. Non appena mi è stato revocato il beneficio… tutto azzerato, cancellato. Improvvisamente, e qui generalizzo, si rischia di essere considerati solo dei vigliacchi, degli ubriaconi, dei drogati, dei criminali, e la cosa peggiore sta nel fatto che, invece di cercare di capire quali possono essere state le difficoltà o i motivi della trasgressione, si viene ulteriormente penalizzati facendo venire meno qualsiasi fiducia.

Dunque mi viene da pensare che le informazioni sul detenuto non vengono stilate in base alle vere qualità di una persona, se poi succede che l’aver commesso un’infrazione alle prescrizioni viene percepito come una tragedia; eppure fuori, in libertà, senza con questo voler fare chissà quali paragoni, ho conosciuto ragazzini cosiddetti “modello” che, nella vita di tutti i giorni, avevano un comportamento da far rabbrividire anche il più sgamato degli operatori penitenziari… Un altro grosso problema deriva dalla lentezza con cui è possibile aggiornare o modificare un programma già stilato e oramai non più adeguato alle esigenze lavorative. Lavorando infatti per le cooperative che hanno appalti a Padova e provincia, o addirittura in altre città, accade che sia necessario recarsi in luoghi diversi. Questi luoghi devono essere comunicati tempestivamente al carcere dal datore di lavoro, ma le modifiche dell’orario e del posto di lavoro sono tutt’altro che tempestive.

Questo fa sì che possano nascere dei dissidi tra il carcere ed i responsabili delle aziende, che non hanno garanzie sulla disponibilità lavorativa della persona detenuta. Così iniziano a protestare con il carcere o il tribunale, magari fino al punto da pentirsi di aver assunto persone portatrici di tali problematiche. Alcune cooperative sono avvantaggiate perché collaborano con il carcere da anni, conoscono le dinamiche e presentano programmi standard che vengono accettati rapidamente, senza grosse difficoltà, ma se una persona detenuta si trova un lavoro per i fatti suoi, magari meglio retribuito o più adatto alle proprie capacità ed aspirazioni, può incorrere in questi problemi non facilmente gestibili né risolvibili.

Infine una riflessione tecnica: a chi viene revocata una misura alternativa per un’infrazione al programma trattamentale, non può essere concesso alcun beneficio per un minimo di tre anni, cinque se commette un reato. Naturalmente nella valutazione di una eventuale nuova concessione, che potrà avvenire solo una volta trascorsi tali termini, si andranno a ripescare sempre i lati negativi per i quali il beneficio era stato tolto. E sarà sempre più difficile ricostruirsi un percorso decente fuori dal carcere. La mia è solo una testimonianza di quali sono alcuni dei problemi e dei rischi di questa delicata fase tra carcere e libertà, con la speranza di non doverci incorrere più, e che ci siano sempre meno revoche o malcontenti.