Relazioni barbariche

 

Anni di carcerazione rendono incapaci di esprimere sentimenti “normali”. Si pensa prima di tutto a punire i detenuti, cercando di tarpare qualsiasi sentimento che possa dare loro piacere, e dimenticando i famigliari che subiscono di riflesso lo stesso trattamento

 

di Mauro Cester, ottobre 2005

 

Quando si parla di diritto all’affettività in carcere, si scatena subito una reazione, direi piuttosto bigotto, tipo: “Ci manca solo che possano scopare in galera”. Una volta dicevano così anche per i fornellini, poi per la televisione e per altre piccole “concessioni” fatte ai detenuti. L’affettività comunque penso non abbia molto a che vedere con un puro discorso di sesso, anche se, comunque, fare del sano sesso è senz’altro terapeutico e credo abbasserebbe di molto l’aggressività. Si tratta più che altro di permettere a persone che devono pagare per le loro scelte sbagliate di stare con la propria famiglia, la propria moglie, con i figli per qualche ora in un ambiente riservato, perché anche il solo parlare intimamente fa bene.

E invece si pensa prima di tutto a punire i detenuti, cercando di tarpare qualsiasi sentimento che possa dare loro piacere, e dimenticando i famigliari che subiscono di riflesso lo stesso trattamento, che sono costretti a vedere il proprio caro al massimo per sei ore al mese, in un ambiente freddo e scomodo, sotto l’obiettivo delle telecamere e, peggio, sotto gli occhi scrutatori degli agenti, che, forse a malincuore, sono lì per controllare. Questi incontri avvengono a volte anche dopo lunghe attese, che causano ulteriori ansie, tanto che i famigliari, in alcuni casi, decidono proprio di rinunciare al colloquio per questioni di tempo o per limiti nella loro capacità di sopportazione.

L’affettività è mantenere vivo un rapporto malgrado tutto, e se non viene data questa possibilità credo che la condanna diventi doppiamente diseducativa e afflittiva. Non conosco i risvolti psicologici che può avere questa continua privazione, io posso solo portare la mia esperienza: dopo nove anni di carcere ho potuto toccare con mano la realtà esterna e misurarmi finalmente con il “fuori”. E ho scoperto che il contatto umano non solo mi spaventava, ma mi dava quasi fastidio, mi sentivo come se avessi subito una specie di imbarbarimento sentimentale. Il fatto è che non si è più abituati a relazionarsi con una persona, e non per questioni sessuali, perché per quello magari basta tirar fuori l’animalità, ma perché non si è più abituati ad avere un contatto fisico, ad essere accarezzati. Ed è difficile ritornare a sentirsi liberi e spontanei, perché le condizioni del carcere in qualche modo ti cambiano in modo irreversibile.

In molti altri Paesi spesso le possibilità di mantenere vivi gli affetti sono tante di più, magari anche minime, ma importanti. In Francia, per esempio, un detenuto può chiamare i famigliari, ma anche gli amici, in qualsiasi momento della giornata, come avviene fuori, mentre da noi bisogna inoltrare una richiesta scritta, tre giorni prima, con l’orario prestabilito. Se nessuno risponde, la telefonata slitta. Io faccio i colloqui tutte le settimane con la mia compagna, e di comune accordo abbiamo deciso di non telefonarci più perché è penoso parlare dei fatti propri, sapendo che, per motivi di sicurezza, le telefonate sono ascoltate. Ma questa, ripeto, è una scelta personale.

Anche in Italia però qualcosa di meglio c’è: ci sono carceri come quello di Bollate, dove la direttrice, Lucia Castellano, ha realizzato una “Stanza dell’affettività” in cui le coppie con figli si possono incontrare in un ambiente adatto, dove ci sono giochi per i bambini e una cucina per preparare e consumare il pranzo insieme, in assoluta tranquillità. Questo non significa che ci sia tutta quella intimità di cui ci sarebbe bisogno, ma almeno ci si può vedere lontani dal solito ferro e cemento e circondati da qualcosa di diverso dai soliti arredi da officina meccanica.

In tanti paesi l’incontro senza controlli visivi tra uomini e donne in carcere è assolutamente normale e non causa allarmismi o preoccupazioni tra il personale addetto alla vigilanza e la popolazione esterna, ma in Italia sembra che gli affetti siano una concessione. Qui a Padova, come in molte altre carceri, non si possono neanche effettuare i colloqui nelle aree verdi, e ad attendere i famigliari, al loro arrivo per i colloqui, ci sono sempre più spesso i cani antidroga.