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Un tentativo di risposta all’insegnante, vittima di una rapina Un confronto che a me può fare solo del bene, anche dentro la sofferenza Conosco molto bene la parte del carnefice e, ripercorrendo con la memoria alcuni fatti del mio passato, mi rendo conto di quanto male posso aver procurato
di Maurizio Bertani, febbraio 2008
Ho avuto modo, frequentando la redazione di Ristretti Orizzonti nel carcere di Padova, di affrontare anche temi delicati e complessi nel corso delle discussioni. Negli ultimi mesi la nostra attenzione si è rivolta ad esaminare in modo più approfondito la sofferenza provocata, con gesti a volte sottovalutati da chi li compie, alle vittime di ogni tipo di reato. Ho avuto modo inoltre di leggere la lettera di una insegnante di una scuola che partecipa al progetto “Il carcere entra a scuola. Le scuole entrano in carcere”, che si è trovata nella condizione di vittima, essendo stata sequestrata durante una rapina in banca con un’arma puntata alla testa e usata dai rapinatori come scudo e deterrente nei confronti degli impiegati. Ho potuto così capire tutta la sua sofferenza e la paura che ha provato. Devo ammettere che come rapinatore questa storia mi ha molto colpito, personalmente non ho mai pensato di collocare fra le vittime anche persone che di fatto sono state coinvolte nell’esecuzione di un reato per un caso fortuito, o meglio sfortunato, e invece, sbagliando, ho sempre considerato come vittime solo tutte quelle collegate a reati di sangue. Questo scritto mi ha costretto a ragionare e a valutare criticamente il mio modo superficiale di pensare, che mi obbligava a cercare giustificazioni che mitigassero le mie responsabilità. Ma non ne ho trovate, non si può infatti affermare che esista il caso fortuito, almeno nella situazione descritta dalla professoressa. È logico che la rapina riguarda due attori principali, il rapinatore e la banca, ma di fatto dobbiamo riconoscere che esistono molteplici figure che vi prendono parte e sicuramente la loro non è una parte secondaria, pensiamo a tutti gli impiegati, che lavorano all’interno dell’istituto bancario, ai clienti, che al momento della rapina si trovano in banca, infine a tutti coloro che vengono coinvolti come vittime di reati collaterali, pensiamo a quelle persone a cui viene rubata l’auto per commettere la rapina. Insomma, le figure coinvolte sono tante e tutte subiscono violenza fisica o psicologica, e volere sdrammatizzare non solo è stupido, ma diventa offensivo verso quelle vittime che si sono viste, anche solo per poco tempo, defraudate della propria vita e della propria tranquillità esistenziale. Personalmente non mi sono mai trovato dalla parte della vittima, conosco molto bene la parte del carnefice e ripercorrendo con la memoria alcuni fatti, mi rendo conto di quanto male posso avere procurato ad una persona tranquilla che esce al mattino da casa salutando magari i suoi cari, e poi verso la fine della mattinata si trova di fronte un individuo armato, che per quanto autocontrollo possa avere, sicuramente urla, è agitato, punta un’arma e prende in ostaggio, seppur momentaneamente, tutti i presenti. Ho rivissuto attraverso la lettera di questa insegnante i mille volti e le mille paure che ho incontrato nel corso della mia dissennata vita, e che superficialmente giustificavo a me stesso come paure momentanee e da relegare esclusivamente allo spazio e al tempo del reato, non rendendomi conto dell’impatto psicologico che chi subisce tali violenze si porta dentro nel tempo. Una rapina può porre la persona che l’ha subita in uno stato di timore e paura di fronte a qualsiasi situazione, anche la più banale come un eccessivo trambusto o un alzar di voci, insomma credo si finisca per essere estremamente condizionati nei rapporti sociali, e provare un’angoscia che diviene allo stesso tempo un mal di vivere, e tutto questo per una violenza subita. Allora mi chiedo: valgono oggi le mie scuse a tutte quelle persone che ho trasformato in vittime? Sicuramente sì, se non fosse per la paura che vengano travisate come frutto di una scelta opportunistica, che è poi il senso di malessere che mi impedisce di porle. Sicuramente posso dire che l’imparare a parlare, o meglio a dialogare, anche dentro un contesto particolare come la redazione di Ristretti, mi ha aiutato a rapportarmi e a confrontarmi con gli altri, siano essi detenuti, volontari, studenti, o la professoressa, che tramite il suo scritto ha dato l’avvio a mille domande e ad altrettante risposte, aprendo con me un dialogo che mi ha portato a ragionare in modo meno leggero e superficiale. Ho imparato che le vittime di qualsiasi reato subiscono violenza, e che la violenza incrementa nell’animo umano l’odio; che, per un autore di reati, sentire le vittime che parlano del loro odio per la violenza subita, da una parte non è piacevole, e può essere un sentire pesante. Ma se questo confronto mi consente di conoscere le loro sofferenze, se questo mi porta a ragionare, e a fare valutazioni fino ad oggi mai fatte, allora mi convinco sempre più che questo confronto può fare a me solo del bene, anche dentro la sofferenza. |
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