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Ristretti mi ha aiutato ad affrontare una pena che non offriva Orizzonti
Frequentare un’attività come quella della redazione ed entrare quindi in quotidiano contatto con persone che vengono “da fuori” è un potente incentivo a riappropriarsi della propria vita
di Marino Occhipinti, agosto 2005
Detenuto dal 1994, sono stato trasferito in questo istituto nel 2000. La prima richiesta che già allora rivolsi alla “mia” educatrice – pur rendendomi conto che non poteva essere accolta – fu proprio quella di partecipare alle attività della redazione di Ristretti Orizzonti. Domanda respinta (visto che la mia condanna all’ergastolo comportava anche la pena accessoria di nove mesi di isolamento diurno, sette dei quali ancora da scontare), ma che sta a indicare almeno quanto sia radicato e oserei quasi dire antico il mio interesse per questa rivista. In Ristretti mi ero imbattuto infatti fin dal suo primo numero (giunto nel mio precedente carcere di straforo, grazie a un’intraprendente volontaria) e poi avevo continuato a procurarmelo, perché interessato dai temi che trattava ma forse più ancora dal tono con cui quei temi venivano di volta in volta affrontati: si avvertiva infatti, nelle pagine della rivista, una volontà di approfondimento che superava la denuncia fine a se stessa e la lamentela, ingredienti prevalenti se non unici nelle altre pubblicazioni carcerarie che mi era capitato di leggere in precedenza. L’obiettivo (sempre più chiaro di numero in numero, ma già implicito nella scelta stessa di una testata provocatoriamente contraddittoria: cosa c’è di meno “ristretto” di un “orizzonte”?), era evidentemente quello di far respirare la galera oltre le mura che la contengono, dimostrando che una più o meno lunga permanenza dietro le sbarre può trasformarsi in un’opportunità di crescita umana e culturale se non si consente all’istituzione carcere di spegnerti, oltreché di punirti. Quando finalmente cessò il mio periodo di isolamento diurno e potei finalmente avere accesso alle cosiddette “attività trattamentali”, mi affrettai a rinnovare la mia richiesta di entrare a far parte della redazione con convinzione ulteriormente rafforzata. A spingermi, probabilmente, erano motivazioni più confuse di quelle che mi inducono ancora oggi, dopo tre anni e mezzo abbondanti, a continuare a impegnarmi con entusiasmo e determinazione in quest’avventura. Credo però che una cosa mi fosse ben chiara, già allora: che da solo non ce l’avrei fatta a sopravvivere a una pena apparentemente senza “orizzonti” come la mia, e che Ristretti mi dava la possibilità di uscire dal mio guscio annichilito e di confrontarmi con altri, detenuti e volontari, in un progetto comune, che sarebbe cresciuto nella misura in cui ciascuno di noi vi contribuisse con il meglio del suo impegno e della sua intelligenza. Una sfida, certo; ma anche un atto d’amore, di rinnovata fiducia in me stesso e negli altri.
La differenza tra un carcere dove entrano i volontari ed un carcere “chiuso” è abissale
Prima di venire qui a Padova avevo conosciuto – e vissuto sulla mia pelle per sei interminabili anni – un tipo di galera del tutto “impermeabile” alla cosiddetta società esterna, tant’è che solo nell’ultimo periodo avevano iniziato a entrarvi, grazie all’impegno di Fra Beppe Prioli, alcuni volontari che gestivano un corso di legatoria, uno di chitarra e… null’altro. Si trattava di un primo, timido tentativo di aprire le porte al mondo esterno che tuttavia ebbe un effetto salutare per i detenuti, fino allora abituati a oziare fra lunghe partite di scopa all’asso o tornei di ping-pong. In pratica, in quell’istituto, per anni le uniche possibilità di contatto con il mondo esterno si erano limitate a qualche raro incontro con gli operatori penitenziari (rigorosamente di sesso maschile) e ai colloqui con i familiari. In un carcere così rinserrato in se stesso, privo di attività trattamentali che comportino la presenza costante di volontari, i detenuti sono costretti di fatto a trascorrere almeno venti ore al giorno chiusi in cella, in una castrante monotonia illuminata soltanto – almeno per chi ha una condanna non troppo pesante da scontare – dalla consolatoria prospettiva del fine-pena, che prima o poi comunque arriverà. In un carcere dove entrano i volontari, invece, si ricomincia a respirare con i polmoni del mondo esterno, perché la loro stessa presenza ha l’effetto di rompere il circuito chiuso dello spento tran-tran quotidiano, aiutando i detenuti a riappropriarsi di se stessi e della propria voglia di sentirsi cittadini di un mondo che ha chiuso a chiave i loro corpi, è vero, ma non le loro intelligenze e tantomeno le loro anime. Per rendersi conto di quanto sia vivificante l’aria fresca che ogni giorno entra in carcere attraverso i volontari, è sufficiente osservare quanto le sezioni ci mettano poco a tornare amorfe e stantie nei giorni di chiusura delle attività, e in particolare di domenica e, peggio ancora, in occasione delle prolungate chiusure festive. Gente che quando frequenta le attività si rade, si passa il gel sui capelli e indossa con piacere i suoi capi migliori, quando è costretta a languire in cella fa fatica perfino a pettinarsi e s’infila addosso il primo straccio di tuta che gli capita a tiro. E chissenefrega di “farsi belli”, se non si può fare altro che tirar sera fra le quattro mura ottuse della propria cella! Frequentare qualche attività, ed entrare quindi in quotidiano contatto con persone che vengono “da fuori”, non è insomma un “diversivo” – sia pure salutare – ma una sfida al proprio orgoglio e un potente incentivo a riappropriarsi della propria vita, imponendosi degli impegni da rispettare, dei programmi da perseguire, delle scadenze da onorare.
Il confronto è importante per facilitare lo sviluppo di una coscienza critica
Prima ancora di entrare a fare parte del gruppo di Ristretti, per un breve periodo frequentai il laboratorio di legatoria e mi capitava praticamente ogni giorno di passare davanti alla redazione. Vedendola regolarmente affollata di persone impegnate in discussioni anche accese, mi ponevo sempre la stessa, stupita domanda: “Ma cos’avranno da dirsi questi qui, per riunirsi tutti i giorni?”. Una domanda destinata a restare senza risposta fino a quando, alcuni mesi dopo, entrato anch’io a far parte della redazione, non mi ritrovai risucchiato in quel clima di discussione permanente, spesso accanita e talvolta addirittura infuocata. Solo allora mi resi conto di quanto sia importante – per far maturare le proprie idee e comunicarle proficuamente all’esterno – farle uscire dal loro guscio e metterle a confronto con quelle degli altri; e solo allora cominciai a capire che il lavoro di redazione – e in special modo di una redazione fatalmente “ristretta”, come la nostra – consiste prima di tutto nell’affrontare ogni tema, anche il più scottante, con apertura mentale totale, liberandosi da ogni pregiudizio e soprattutto dai propri, che generalmente sono i più duri a morire. Poi, soltanto in un secondo momento, viene la parte “tecnica” dell’attività redazionale: che consiste nello scrivere articoli (e prima ancora nell’imparare a scriverli, che è nient’affatto facile) e nel confezionarli graficamente in una rivista ordinata, accattivante e ben equilibrata nel succedersi delle sue varie parti. Ma il momento di “sblocco”, di uscita dal proprio particolare, è comunque di gran lunga il più importante, specie per persone come me – e come la gran parte di noi – che hanno alle loro spalle storie che le hanno segnate in profondità e più o meno lunghi periodi di carcerazione “blindata”. Non ci si deve stupire, perciò, se basta un nulla per innescare dibattiti anche molto accesi: chi non conosce il carcere, per esempio, troverebbe senz’altro singolare che, recentemente, siamo riusciti a discutere animatamente anche di un argomento apparentemente risibile come il fatto di dover fare la doccia con le mutande addosso. Ma ragionare sul carcere, e sulla nostra vita in carcere, vuol dire anche mettere a fuoco queste apparenti “scemenze”, perché la nostra quotidianità è scandita da un succedersi ininterrotto di apparenti “scemenze” di cui occorre comunque avere consapevolezza, se non si vuole accettare di vivere da automi: anch’esse fanno parte della “pena”, e il fatto di doverle comunque subire non deve esentarci dal vederle con senso critico. Ovvio però che la partecipazione alla discussione, e l’infervoramento, raggiunga livelli molto più alti quando si affrontano temi più gravi e talvolta drammatici: quando, parlando per esempio di un grave fatto di cronaca, siamo fatalmente portati a confrontarci con il nostro passato, magari con i nostri stessi reati, sconfinando talvolta in “revisioni critiche” tutt’altro che rituali, perché non richieste ma frutto di una nostra personale volontà di capire e di approfondire, a volte anche “contro” noi stessi; oppure quando la discussione verte su temi intimi e spudoranti, come la negazione della sessualità e tutto ciò che essa comporta nella vita di persone sane e perlopiù nel pieno della propria vitalità.
Un’impresa che, oltre a rendere più sopportabile la galera, mi ha aiutato a crescere, umanamente e culturalmente
Ormai sono uno dei “vecchi” della redazione, perché per (sua) fortuna di tanto in tanto qualcuno ci lascia per passare a “miglior vita” (magari anche solo l’articolo 21 o la semilibertà, in attesa della libertà tutta intera). Il mio “debutto” avvenne quando era in stampa il Numero d’Argento, il 25°, e ora partecipo da veterano alla preparazione di questo Numero d’Oro, il 50°. Un traguardo davvero notevole per una rivista nata e cresciuta in carcere, per iniziativa di un pugno di volontari e di detenuti e con un budget di partenza talmente risicato che – come ha candidamente ammesso poco tempo fa uno dei fondatori della rivista (forse perché “il reato è ormai prescritto”?) – per spedire uno dei primi numeri al Papa si dovette utilizzare una busta e un francobollo “riciclati”. Neppure ora navighiamo nell’oro, per carità, ma siamo divenuti una realtà forte, consolidata, credibile, ed è questo soltanto che per noi conta. E che mi spinge – se devo trarre un bilancio personale da quest’esperienza – a provare un senso d’orgoglio per il lavoro che siamo riusciti a fare tutti insieme, detenuti e volontari, senza mai lasciarci scoraggiare dalle difficoltà e dalle incomprensioni che naturalmente non sono mancate, come sempre accade nelle cose della vita. E, con l’orgoglio, c’è in me anche la gratitudine per Ornella e per le tante persone che, in ruoli diversi e magari in tempi diversi, hanno partecipato con me a un’impresa che, oltre a rendermi più sopportabile la galera, mi ha aiutato a crescere, umanamente e culturalmente. La mia speranza, ma in fondo anche la mia convinzione, è che questa mia e nostra crescita interiore si rispecchi nel nostro giornale, e che esso diventi sempre più capace di interpretare l’impegno e la passione civile di chi lo scrive e di chi lo legge. |
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