Lettere dei detenuti agli studenti

Il pensiero va alle mie due figlie, vittime anche loro delle mie scelte

 

È come se non fossi mai veramente solo, ho come la sensazione di vivere fianco a fianco con la persona che ho contribuito ad uccidere durante un tentativo di rapina

 

di Marino Occhipinti, febbraio 2005

 

Cari ragazzi,

mi chiamo Marino e mi trovo detenuto nella Casa di reclusione di Padova. I vostri temi, sia quelli scritti prima dell’inizio del progetto “Il carcere entra a scuola”, sia quelli successivi, mi hanno messo addosso una gran voglia di scrivervi, tant’è che in questi giorni ho provato spesso a riordinare le idee. Ma per quanto abbia iniziato più volte a mettere nero su bianco quello che vorrei dirvi di me e della mia storia, non sono mai riuscito a trasporre sulla carta le mie emozioni con la necessaria immediatezza ed efficacia.

Per obbligarmi a sciogliere la lingua prendo allora spunto da un articolo spietatamente autentico, quasi spudorato, che ha scritto tempo fa Nicola, un mio compagno detenuto che ora sconta la sua pena con una misura alternativa alla detenzione, la “semilibertà”. Quando scrisse quell’articolo fece una cosa molto elementare ma efficace: tracciò il bilancio della sua vita, prendendo in esame i guadagni ma anche, e soprattutto, le perdite. I guadagni si limitavano di fatto a qualche spiraglio di bella vita; le perdite ammontavano invece a… 24 anni di galera già scontata e una decina ancora da fare.

 

Pagare vuol dire convivere con un peso sulla coscienza che il trascorrere del tempo non riesce ad alleviare

Quanto a me, cominciamo dunque col dire che ho quarant’anni compiuti da un paio di mesi e che sono in carcere da quando ne avevo 29. Sono sposato e ho due figlie, che hanno rispettivamente 14 e 17 anni. Il termine della mia condanna non esiste: sul frontespizio del mio fascicolo è scritto infatti, in stampatello e ben evidenziato in rosso, FINE PENA: MAI. Ergastolo, insomma, anche se le poche volte che per questioni burocratiche ho avuto la necessità di chiedere un certificato di detenzione vi ho stranamente trovato scritto Fine pena: 2099. Che si sia trattato di un errore, di una simbolica datazione burocratica o di un segno di pietosa gentilezza dell’amministrazione penitenziaria cambia poco. La situazione rimane tragica, anche perché - fosse attendibile questa “edulcorata” versione - nel 2099 avrei 134 anni. È comunque fin troppo ovvio che, per essermi meritato una simile condanna, i miei reati sono stati gravi, anzi gravissimi. E infatti, in ordine di gravità crescente, essi sono: furto, porto illegale di armi e di esplosivi, rapina, tentato omicidio, omicidio. Penso che possa bastare.

Alla luce delle domande che alcuni di voi hanno posto a noi detenuti in occasione dei nostri incontri, nell’auditorium del carcere, immagino siano sostanzialmente tre i quesiti che più vi stanno a cuore:

  1. In quali circostanze è maturato e si è poi verificato il tuo reato?

  2. Cosa ti ha spinto a commettere un crimine?

  3. Con quali stati d’animo sconti ora la tua condanna?

Rispondere a simili domande è tutt’altro che semplice, anche perché - per quanto siano gravi i reati che ho commesso, e per quanto mi abbiano segnato in maniera irrimediabile - essi sotto il profilo temporale rappresentano solo una frazione infinitesimale della mia vita: la mia condanna, fine pena mai, riguarda infatti reati che ho commesso nel 1988, nell’arco di soli quindici giorni. E cosa sono, quindici giorni, in una vita lunga quarant’anni? Sia chiaro però che, ponendo l’accento su quel pugno di giorni che hanno sconvolto e segnato per sempre la mia vita, non intendo affatto accampare scusanti o peggio ancora misconoscere e ridurre le mie responsabilità. Intendo solo rivendicare il mio umano diritto a non riconoscermi soltanto in quel giovane uomo che, oltre 17 anni fa e per tutta una serie di circostanze estreme e irripetibili, si è ritrovato a compiere atti che ora paga amaramente.

E pagare non significa soltanto scontare, giorno per giorno, una condanna lunga come tutta la vita che hai davanti. Pagare vuol dire anche convivere con un peso sulla coscienza che il trascorrere del tempo non riesce ad alleviare, perché si rinnova ogni giorno e t’insegue anche di notte, impedendoti di dormire serenamente anche quando sei stanco morto. Per quel che mi riguarda, è come se io non fossi mai veramente solo: ho come la sensazione di vivere fianco a fianco con la persona che ho contribuito a uccidere durante un tentativo di rapina. Un giovane che aveva la mia età…

Come in una sequenza fotografica proiettata all’infinito, le immagini di quella sera si ripetono in continuazione nella mia mente. “Assalto ad un furgone portavalori, uccisa una giovane guardia giurata di 23 anni…”, strillava poche ore dopo la “civetta” collocata davanti a un’edicola, che dell’uomo riportava anche la fotografia, rimasta impressa da allora in maniera indelebile nella mia memoria. E poi il processo, lo sguardo dei suoi genitori “insopportabile” da reggere, il pianto a volte sommesso ed altre volte straziante della madre… Un brivido di dolore ed un forte senso di colpa ogni volta che ci ripenso, e ciò avviene troppo, troppo spesso. Se queste sono solamente alcune delle sensazioni che può avvertire colui che ha ucciso, e le conosco fin troppo bene, posso invece solo immaginare la sofferenza, atroce e implacabile, di chi un figlio addirittura lo ha perso per sempre, e non per disgrazia o fatalità ma per mano di un’altra persona.

 

L’imbarazzo di avere il padre in carcere, la necessità di doverlo nascondere ai compagni di scuola

Ma il peso che grava sulla mia coscienza riguarda anche le mie figlie, mia moglie, tutti gli altri miei familiari: anche loro vittime delle mie scelte, anche loro irrimediabilmente segnati dall’essersi ritrovati con un padre, un marito, un fratello, un figlio assassino. Nelle mie considerazioni sul fatto che mi trovo in carcere - e su tutto ciò che ne consegue - io e la mia vita spezzata veniamo per ultimi: ed è giusto così, perché in fondo io “me la sono cercata”. Loro invece non hanno fatto nulla, ma proprio nulla, per meritarsi il dolore, l’angoscia e i mille disagi materiali e morali che gli ho procurato.

Quando penso alle mie figlie mi si stringe il cuore a immaginare la vergogna e l’imbarazzo che rappresenta per loro avere il proprio padre in carcere, e ai mille sotterfugi cui sono costrette a ricorrere pur di nascondere la verità ai compagni di scuola per non sentirsi “diverse”, tagliate fuori. E ciononostante è accaduto che la verità sia venuta a galla, e che abbiano dovuto perfino cambiare sede scolastica per ritrovare un po’ di serenità. Chissà quante volte, pressate da domande insistenti sulla mia perdurante “assenza”, sono state costrette a cavarsi d’impaccio ricorrendo a pietose bugie: “Mio padre? È via per lavoro, ma quando torna a casa mi accompagnerà sempre a scuola lui…”.

Ci sono alcune foto che porto sempre con me, dalle quali non mi stacco mai. Una in particolare raffigura la maggiore delle mie figlie prima del mio arresto: siamo seduti sull’erba di un parco pieno di alberi secolari. È radiosa, e non c’è bisogno di conoscerla profondamente per accorgersi che è felice, serena. Nelle altre, successive al mio arresto, è invece la sofferenza fatta persona: gli occhi tristi, il viso cupo. Ha avuto ed ha ancora grossi problemi, di salute ma anche comportamentali, dovuti essenzialmente alla mia vicenda e agli effetti traumatici che ha avuto su di lei. Nel suo diario un paio di anni fa ha scritto: “Caro diario, sono davvero sfortunata: mio padre è in carcere ed io sono malata…”. Mi pare significativo che la sua prima angoscia sia stata quella di annotare che io sono in carcere.

Le mie figlie sono cresciute senza di me. Non conosco più i loro gusti alimentari, me li faccio descrivere ma non è la stessa cosa. A Natale, a Pasqua, in occasione dei loro compleanni e delle altre ricorrenze più importanti io non ci sono mai. E non ci sono neppure quando stanno male, quando vorrebbero confidarsi, sfogarsi se qualcosa non va bene, come si fa con un genitore. Sono cresciute senza di me così come io sono cresciuto senza di loro. È doloroso e per me rappresenta una pesante sconfitta, l’ennesima, che mi accompagnerà per tutta la vita.

Questi sono soltanto alcuni dei tanti “dettagli” che mi sento di elencare alla voce perdite del mio rendiconto personale; la casella dei guadagni la lascio invece in bianco: zero assoluto. Un bilancio negativo? Peggio, catastrofico. E perdonatemi se, nel presentarvelo, sono riuscito a rispondere solo all’ultima delle tre domande che io stesso mi ero posto all’inizio di questa lettera: purtroppo faccio fatica a confrontarmi con me stesso, figuriamoci con gli altri.