Lavoro a rotazione? Non tutti sono d’accordo

 

E’ troppo difficile assegnare in modo equo e intelligente il lavoro ai detenuti, se questo lavoro è quasi inesistente. La risposta all’articolo di Elton Kalica

 

Di Marino Occhipinti, maggio 2003

 

Sono un "aristocratico" del quinto piano, quello dei lavoranti appunto, e no, non sono d’accordo con la proposta di stabilire la rotazione anche per quelli che ora sono i cosiddetti lavori "fissi".

Già il carcere è il luogo dell’incertezza, e rendere incerto anche quel poco lavoro stabile che c’è non mi pare la soluzione migliore. I criteri di selezione per accedere ad un’occupazione continuativa sono molteplici e sono stabiliti da un’apposita tabella che, sulla base di determinate caratteristiche quali la composizione del nucleo familiare, la presenza di figli minori, la durata della pena inflitta, quella già sofferta e quella ancora da scontare, assegna un punteggio che stabilisce la graduatoria di ammissione al lavoro.

Tanto per intenderci, per fare un banale esempio, chi è da molto tempo in carcere ed ha una lunga condanna da scontare - magari con un nucleo familiare con figli piccoli -quasi sicuramente lavorerà prima di chi ha una situazione diversa e meno gravosa.

E non mi sembra per niente un metodo campato in aria.

I tempi per essere inseriti al lavoro, inoltre, variano notevolmente da un Istituto di Pena all’altro, secondo la loro capienza e la presenza o meno di lavorazioni esterne. Le attese, comunque, mi dice qualche ben informato, generalmente si aggirano attorno ai due-tre anni, proprio quelli che, almeno economicamente, si affrontano più agevolmente, con meno problematiche, vuoi per qualche "risparmio" accantonato o per l’aiuto che i familiari e le persone vicine sono disponibili a concederti.

Poi passano gli anni, nel corso dei quali le spese legali hanno assorbito quel poco che avevi ed i familiari hanno messo fondo ai loro denari per seguirti da un carcere all’altro e per consentirti di sopravvivere. Gli amici si sono pian piano dileguati, d’altronde fuori la vita prosegue ed è fisiologico che sia così.

Ecco allora giungere in soccorso un lavoro fisso, magari part-time come quello al quale sono stato assegnato io: tre ore e mezzo, cioè tutte le mattine, a produrre manichini in cartapesta alle dipendenze della Cooperativa sociale Giotto, che un paio di anni fa ha avviato la lavorazione all’interno di questa Casa di Reclusione.

La scelta del lavoro, ovviamente, è stata effettuata dalla direzione del carcere, non so su quali basi e con quali criteri, ma poco importa, poteva essere anche un’occupazione diversa. Quel che mi interessava era lavorare, lavorare per guadagnare due soldi così da non dipendere, come un bambino ma alla soglia dei 40 anni, da qualche mio familiare.

La possibilità di lavorare non dev’essere però vista solamente nell’ottica economica, certamente importante, ci mancherebbe, ma è altrettanto determinante la gratificazione che arriva forse dalla voglia di dimostrare, a chi ti ha dato fiducia ma anche a te stesso, che sì, hai sbagliato, ma sei ancora in grado di dare e fare qualcosa.

Ma sulla proposta dei lavori a rotazione così come sono descritti nel precedente articolo c’è ancora qualche precisazione da aggiungere, perché gli "aristocratici" del quinto piano sono, nella maggior parte dei casi, persone che hanno già scontato parecchi anni di carcere.

Oltre ai criteri oggettivi e soggettivi già elencati, comunque, vi sono altre circostanze determinanti all’assegnazione al lavoro fisso, perché, lo dice anche l’Ordinamento Penitenziario all’articolo 27, "l’osservazione scientifica della personalità è diretta all’accertamento dei bisogni di ciascun soggetto, connessi alle eventuali carenze fisico-psichiche, affettive, educative e sociali…", secondo un percorso rieducativo e risocializzante che viene sviluppato e modellato ad hoc, individualizzato e personalizzato sulla base delle esigenze di ogni singolo detenuto.

Ho dovuto aspettare 7 anni e mezzo prima di avere un lavoro "fisso", anche se devo dire che sono in questo Istituto soltanto da poco più di tre anni, e anche se ora non navigo nell’oro sinceramente mi seccherebbe un po’ se il lavoro fosse, che ne so, a cadenza trimestrale o semestrale, non tanto per qualche euro di differenza nel bilancio ma piuttosto per non minare quell’equilibrio psicofisico già di per sè difficile da mantenere in carcere, soprattutto se hai una lunga condanna da scontare e cerchi la tranquillità.

Quando non hai la libertà dietro la porta eviti di fare tanti calcoli: metti da parte le illusioni, ti "corazzi" per sopravvivere e la tua vita diventa il carcere, con tutti i suoi tran tran: interrompere ogni volta un percorso costruito ad arte per le tue "caratteristiche" provocherebbe un pericoloso effetto elastico, un tira e molla che certamente non gioverebbe, anzi.

 

Il problema delle cooperative che danno lavoro in carcere? L’eccessivo turn over dei lavoranti

 

Fin qui le considerazioni elaborate come detenuto, ma c’è un altro versante forse ancora più importante: la rotazione in determinate attività è estremamente difficoltosa in considerazione delle caratteristiche proprie di alcune lavorazioni, ad esempio nelle attività inframurarie svolte alle dipendenze delle imprese che accettano di portare lavoro in carcere, quelle che vengono comunemente definite attività "produttive" perché si differenziano dai soliti lavori domestici, ma anche nell’ambito degli stessi lavori domestici penso, ad esempio, alla qualità del cibo se i cuochi fossero sostituiti ogni sei mesi…

Ma ancor di più penso ai laboratori di falegnameria, alle lavorazioni del ferro o del marmo, all’assemblaggio di componenti elettronici, all’inserimento dati tramite computer, lavori realmente esistenti in carcere, e non è per difendere la categoria dei lavoratori fissi, la mia "casta", che dico no alla proposta che anzi non ho alcun timore a definire distruttiva.

Basta leggere le "interviste a distanza" che sviluppiamo come redazione di Ristretti Orizzonti. Una delle prime domande che poniamo sempre alle cooperative ed alle aziende che all’interno degli Istituti detentivi danno lavoro ai detenuti è la seguente: "Quali sono le difficoltà che incontrate nel lavorare in carcere?".

Ebbene, la risposta è quasi sempre la stessa: l’eccessivo turn over dei dipendenti è la principale problematica avvertita dalle imprese, che dopo aver formato i lavoratori per parecchi mesi, a volte anni, così da renderli pienamente produttivi e quindi funzionali alle loro esigenze, li "perdono" per i motivi più svariati, tanto da mettere a serio rischio la sopravvivenza della lavorazione stessa.

Il problema del lavoro in carcere esiste, lo dicono le statistiche e ce ne accorgiamo quotidianamente, ma forse un’eccessiva turnazione produrrebbe solamente ulteriori danni, mettendo a repentaglio quel poco che nel corso degli anni è stato faticosamente costruito.

Purtroppo non ho alcuna soluzione da suggerire se non quella di lasciare invariato l’attuale sistema: probabilmente, "tirare" avanti così eviterà di far peggiorare la situazione, d’altronde per chi ha la "fortuna" di avere una condanna abbastanza lunga il "privilegio" di appartenere alla "casta" dei lavoranti prima o poi arriva!