Due detenuti provano a “rileggere” dati e statistiche

59.000 fantasmi?

Sì, il numero dei detenuti continua a crescere, eppure le statistiche dicono che i tempi di permanenza in carcere sono bassissimi anche per reati gravi. Ma siamo proprio sicuri di “saper leggere” i numeri che ci danno?

 

di Marino Occhipinti, dicembre 2008

 

“È inaccettabile e vergognoso che in Italia in carcere non ci stia nessuno. Chi sbaglia deve pagare, invece la media di permanenza in carcere per i responsabili di violenza sessuale è di due anni, mentre anche i pluriomicidi rimangono dietro le sbarre al massimo per otto anni…”.

 

Queste, grossomodo, le parole che l’opinionista Paolo Del Debbio ha pronunciato, davanti a milioni di persone, il 21 dicembre durante la trasmissione domenicale pomeridiana di Canale 5. Naturalmente a queste affermazioni ha fatto eco lo sdegno dei partecipanti alla trasmissione, e così è stata avanzata, proprio in diretta, la proposta di infliggere l’ergastolo anche ai responsabili di omicidio colposo da incidente stradale, scordando che, per l’involontarietà che c’è spesso dietro un incidente, con questi metodi può capitare a chiunque di trovarsi dietro le sbarre.

Le affermazioni di Del Debbio, fondate su cifre reali probabilmente senza tener conto di alcune variabili, fanno riferimento a una ricerca sui tempi medi di permanenza in prigione, effettuata dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. La statistica in questione, ed è quantomeno “curioso” e insolito che un lavoro di approfondimento e di analisi debba essere fatto in carcere, per di più da “giornalisti” detenuti, rivela però delle parti di difficile interpretazione, sulle quali poniamo alcuni interrogativi:

Il primo. Si è tenuto conto in modo corretto di tutte le persone che, liberate in attesa che la sentenza diventi “definitiva”, sono uscite dal carcere per rientrarvi, però, quando la sentenza diventa esecutiva (come è successo, tanto per citare un caso conosciuto, ad Annamaria Franzoni che ora sta scontando in carcere la condanna)?

Il secondo. Si è sottolineato il fatto che poco meno del 50 per cento di chi si trova in custodia cautelare viene assolto durante i tre gradi di giudizio, oppure viene definitivamente scagionato durante la fase delle indagini preliminari, come è accaduto, solo per citare un altro caso noto, a Patrick Lumumba nel noto omicidio di Perugia?

Il terzo. Come mai la media della detenzione per ogni singolo reato è stata effettuata prendendo in esame il 2006, proprio l’anno in cui è stato concesso l’indulto? La ricerca dice che non ha tenuto in considerazione i beneficiari dell’indulto, ma come dimenticare che dai circondariali sono uscite comunque le persone colpevoli di reati per cui la pena prevista era inferiore ai tre anni?

Considerando quindi almeno questi tre elementi è facile dedurre che le medie siano perlomeno da analizzare con grande attenzione. Perché per esempio Annamaria Franzoni ha addirittura “spezzato” in due la sua media di permanenza in carcere e Patrick Lumumba, con i suoi 10 giorni di galera peraltro ingiusta, ha magari abbassato la media di chi in prigione per omicidio ci rimane venti o venticinque anni o anche più.

Solitamente chi utilizza questa statistica – come ha fatto Del Debbio anche in altre trasmissioni, oppure Bruno Vespa a Porta a Porta – attacca la legge Gozzini affermando che in Italia non c’è la certezza della pena; chi sostiene ciò “dimentica” forse che la galera in Italia è certissima, solo che magari la si sconta, e di miei compagni in queste condizioni ce ne sono moltissimi, dieci anni dopo aver commesso il reato, quando le persone si sono già ricostruite una vita, hanno un lavoro e una famiglia.

Ma questo lo sanno in pochi, e la maggior parte dei cittadini crede che dal carcere si esca troppo in fretta, così almeno ha sostenuto il 93 per cento degli intervistati in una ricerca dell’Ispo.

Ho letto molte statistiche sul carcere, sulla pena e sulla giustizia. Nonostante molte di esse confermino un netto calo dei reati (secondo il Viminale la diminuzione media dei crimini è stata del 10,1 per cento nel primo semestre del 2008; gli omicidi si sono ridotti di due terzi negli ultimi 15 anni, ma con un esponenziale aumento di quelli commessi in ambito famigliare), i sondaggi sulla sicurezza continuano a mostrare prevalentemente l’aspetto della paura diffusa, e a demonizzare le misure alternative, perché “fanno uscire prima” la gente dal carcere.

Quasi nessuno sa per esempio, ad eccezione degli addetti ai lavori, che tra i quasi 10mila detenuti che nel primo semestre del 2008 hanno fruito di una misura alternativa alla detenzione “solo” 42, e cioè 4 su mille hanno commesso nuovi reati (il tasso del periodo 2001-2008 è stato ancora inferiore, oscillando tra il 2 e il 3 per mille) ma piuttosto si tende ad esaltare l’eccezione proprio come i casi di Izzo e Minghella, utilizzati come “scarica emotiva” sull’opinione pubblica ogni volta che si vorrebbero restringere i benefici penitenziari, che invece funzionano e creano sicurezza.

Pacchetto sicurezza, pene sempre più severe per i tossicodipendenti, la legge ex Cirielli sulla recidiva, nuove norme sull’immigrazione, carcere anche per chi getta la lavatrice in discarica, gesto sicuramente deprecabile ma sicuramente non da galera: oggi il 40 per cento dei detenuti è in carcere per reati “bagatellari”, ossia quelli che comportano pene lievi, tipici delle fasce deboli.

Eppure a sostenere con gran chiarezza l’inefficacia del pugno di ferro e la conseguente convenienza sociale oltre che economica di una giustizia più umana è stato proprio il capo dell’Ufficio studi del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Giuseppe Capoccia: “Il modo migliore per evitare che i delinquenti tornino al crimine una volta scontata la pena? Non tenerli in galera. Sì, perché il tasso di recidiva tra i condannati affidati ai servizi sociali, alle comunità terapeutiche o al lavoro esterno è meno di un terzo di quelli che invece restano in cella”.