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La mediazione non significa “dimenticare” quello che è accaduto L’enorme sofferenza delle vittime è rimasta incollata alla nostra pelle Per questo è importante che chi ha fatto del male conosca il viso, i sentimenti, le angosce delle persone alle quali ha devastato la vita
di Marino Occhipinti, luglio 2008
Metà luglio, sabato sera, un’afa opprimente. Ho appena riascoltato le registrazioni degli interventi del convegno “Sto imparando a non odiare” e ancora oggi, nonostante il tempo trascorso, continuano in particolare a colpirmi, con la stessa intensità di allora, le parole cariche di dolore di Silvia Giralucci. Quel giorno la sua voce, spesso incrinata, ha letteralmente ammutolito la platea e ha trafitto gli animi di molte delle persone presenti, noi detenuti su tutti. Quando ha raccontato la sua drammatica esperienza ho cercato di trattenermi ma le lacrime scendevano lo stesso. Ho pianto per le cose che ci ha detto, ma anche per il suo stato d’animo: mi sono reso conto che chiedendole di ripercorrere la parte più tragica della sua vita le stavamo infliggendo delle ulteriori sofferenze. Dopo il suo intervento sono stato tentato, più volte, di avvicinarla, di parlarle. Avrei voluto domandarle se qualcuno le aveva mai chiesto scusa per quello che hanno fatto a lei e alla sua famiglia, e se così non fosse stato, naturalmente per quel che poteva contare, avrei voluto chiederle scusa io per conto loro. Non è la stessa cosa, lo so benissimo, anzi forse è soltanto un pensiero stupido, ma ho sentito fortissimo questo desiderio, e se non mi sono avvicinato è stato solo per il timore della sua reazione. Non volevo essere invadente, l’ho vista molto tesa e anche per questo sono rimasto sorpreso, e contento, quando al momento dell’uscita è venuta a porgermi la mano spiegandomi che presto sarebbe venuta in redazione assieme a Benedetta Tobagi, che non aveva potuto partecipare alla Giornata. Spero che Silvia, così come tutti gli altri “relatori”, sia uscita da questo carcere con l’animo più sollevato e con il cuore un po’ più sereno di quando è entrata, in ogni caso la sua enorme sofferenza, che è rimasta incollata alla nostra pelle, ha lasciato un segno veramente profondo e indelebile in tutti i partecipanti. Il 23 maggio con me c’era un mio compagno detenuto per omicidio, una persona abbastanza “dura” che in questi anni di detenzione trascorsa assieme non ho mai visto farsi prendere dalle emozioni. Ebbene, quando ha parlato Silvia, al fianco del mio compagno c’era un suo familiare che continuava ad allungargli fazzoletti perché non smetteva più di piangere. “L’uomo che ho ucciso io aveva una bambina di tre anni, e anche lei, come Silvia Giralucci, non aveva nessuna colpa”, mi ha confidato quella stessa sera. Io, oltre ad aver provato le sue stesse sensazioni, sono rimasto molto colpito anche e soprattutto dalle parole più dure che Silvia ha pronunciato nei confronti di chi ha ucciso il suo papà, e degli assassini in generale. Ho provato disagio perché molti dei comportamenti che Silvia vorrebbe che fossero tenuti dagli assassini di suo padre io li vivo quotidianamente. Attimo dopo attimo. Ogni volta che mi guardo allo specchio, e non solo la mattina, mi chiedo come sia potuto accadere. Mi chiedo come io abbia potuto, con i miei gesti, infliggere sofferenze alle vittime e anche alle persone a me care, che pagano quanto e (molto) più di me per i miei errori. Alcuni anni fa sono stato duramente rimproverato dalla mia educatrice perché non riuscivo a parlare con le persone guardandole negli occhi. Me ne stavo sempre “a testa bassa”, proprio come vorrebbe Silvia. Quello del 23 maggio è stato il settimo convegno al quale ho partecipato, e seppur con tanto timore, anche perché era senza ombra di dubbio il più difficile e delicato in assoluto, sono riuscito a parlare per la prima volta. Fino ad ora, proprio per la paura di ripiombare nella vita delle persone che a causa mia hanno sofferto e ancora soffrono, me ne ero sempre rimasto in silenzio. Chissà per quale strano e misterioso presagio, come se le parole poi pronunciate da Silvia già aleggiassero nella mia mente, proprio pochi giorni prima del convegno avevo scritto a una persona a me molto cara, e le avevo raccontato che la vita mi sta dando molto molto di più di quello che merito, che “ogni giorno è per me un giorno regalato rispetto a quello che ho fatto”. Sempre alcuni giorni prima del convegno, nell’ambito di un’iniziativa organizzata dalla cooperativa per la quale lavoro qui in carcere, un giornalista mi ha ripetutamente chiesto se a volte sono felice. A parte che considero la domanda a dir poco inadeguata, ho risposto soltanto che, dopo quello che ho fatto, io non voglio, non posso, non devo essere felice, mi impedisco di essere felice.
La vita di chi ha ucciso non può più essere normale
Dopo neanche un mese, così come promesso, Silvia è venuta in redazione con Benedetta Tobagi, il cui padre Walter, giornalista, venne assassinato quando lei aveva tre anni. Sia Silvia sia Benedetta ci hanno confidato che non sarebbero disposte a stare nella stessa stanza con chi ha ucciso il loro papà. “Assassini che hanno scontato pochissimo carcere e che si sono rifatti una vita. Uno di loro si è sposato, ha avuto un figlio e conduce una vita normale”, ha aggiunto Benedetta. Intervengo per dire che non sono sicuro che le persone che hanno ammazzato suo padre possano vivere un’esistenza normale, semplicemente perché la vita di chi ha ucciso NON PUÒ più essere tale. Ogni volta che vedo o che soltanto penso alle mie due figlie, accanto a loro si “materializza” anche il viso di un’altra ragazzina oramai donna, e cioè la figlia della persona che a causa mia non c’è più, e magari anche alle persone che hanno ucciso suo padre potrebbe capitare la stessa cosa. Sedersi di fronte a vittime di reati così gravi non è mai facile, soprattutto stavolta che nella nostra redazione ci sono due donne, poco più che trentenni, alle quali sono stati uccisi i papà, quindi il timore che le mie parole possano riaprire le loro ferite, e che le loro risposte possano essere conseguentemente “pesanti”, è forte; invece Benedetta, inaspettatamente, dice che quello che ho appena espresso le fa molto effetto, che forse non ci aveva mai pensato. Lentamente l’atmosfera si scioglie, parliamo di mediazione penale e sia Benedetta sia Silvia sono categoricamente contrarie a qualsiasi tipo di “contatto” con chi ha ucciso i loro papà. Però sono state disposte a venire qui in carcere, a parlare con noi, noi che abbiamo anche ucciso, e ci sembra un primo significativo passo in avanti, un tentativo di “mediazione indiretta” che ha comunque messo delle vittime di fronte a degli autori di reati molto gravi. La sera stessa, così come ho già fatto con Silvia all’indomani del convegno, scrivo a entrambe.
Scrivendo a Silvia Giralucci e a Benedetta Tobagi
A Silvia e Benedetta non ho scritto per convincerle di alcunché, quello che mi preme è soltanto allargare un po’ il discorso su un tema molto complesso e delicato come la mediazione. Per fare questo, ho però avuto il bisogno di entrare nel personale, ovviamente nel “mio” personale. Nell’ambito di tutta la mia vicenda sono condannato alla pena dell’ergastolo per una rapina ad un furgone portavalori, nel corso della quale morì una giovane guardia giurata. Ho appositamente scritto la parola morì, anziché uccidemmo, per una istintiva forma di difesa che in tutti questi anni mi ha sempre portato ad evitare l’utilizzo diretto del termine, che trovo insopportabile, quasi impossibile da scrivere o da pronunciare. Nel 1988, Carlo aveva 22 anni, la stessa età che avevo io allora. Leggendo i quotidiani dell’epoca seppi, fin da subito, che aveva lasciato una bambina di due anni. Nel 2000, sfogliando casualmente Il Resto del Carlino, trovai un articolo che parlava della commemorazione di quella tragica rapina, e c’era anche la fotografia di una ragazzina, allora 14enne: era la figlia di Carlo. Da quel giorno, il viso di quella adolescente dai capelli neri a caschetto – della quale non voglio nemmeno scrivere il nome perché, così facendo, mi sembrerebbe di entrare, ancor più di quanto ho già drammaticamente fatto, nella sua vita e nella sua intimità – è stampato nella mia mente. E quel viso lo “vedo” ogni volta che sono con le mie figlie o che solamente penso a loro, e cioè sempre. Che dire poi dei genitori di Carlo, dei loro occhi che ad ogni udienza venivano a cercarmi davanti alla gabbia? Non li dimenticherò mai, sono uno dei miei tanti incubi, e ancora oggi mi riecheggia in testa il pianto sommesso e straziante di sua madre, che più di una volta il presidente della Corte d’Assise fece accompagnare fuori dall’aula; mica perché “disturbava”, ma perché ad ascoltarla era una pena che graffiava il cuore. Nel 2001 ho chiesto a un amico diacono di Bologna, col quale facevo colloqui, che si informasse, in via assolutamente riservata e tramite il loro parroco, di come stavano “quei” genitori. Quando tornò a trovarmi mi disse che ogni tanto il parroco incontrava il padre per strada, ma che non aveva notizie della madre, che non andava neppure più in chiesa perché la chiesa e la messa le ricordavano il funerale del figlio… La moglie di Carlo, invece, so solo che esiste, che dopo l’omicidio del marito, probabilmente per sopravvivere al dolore, si è nuovamente trasferita in Puglia, sua terra di origine; non l’ho mai vista, quindi non ho nessuna sua immagine concreta, e forse proprio per questo, e non so se sia strano oppure no, nei miei pensieri lei viene per ultima. Forse è anche per tale motivo che ritengo importante che chi ha fatto del male conosca il viso, i sentimenti, le sofferenze e il vissuto delle persone alle quali ha devastato la vita; sarebbe giusto che le conoscesse non per trarne un vantaggio emotivo personale, e cioè per stare meglio, ma per prendere piena consapevolezza di quel che ha commesso e di cosa i suoi gesti hanno comportato. Per questo, quando a fine incontro Silvia ha detto che lei ha sempre addosso il suo cappotto di dolore e che quindi lo deve portare anche chi ha ucciso il suo papà, le ho risposto che la mediazione, anziché liberare quelle persone del loro fardello, potrebbe costringerle a indossare un cappotto ancora più pesante, proprio perché la mediazione non è e non deve essere intesa come un momento in cui fare la pace per “dimenticare” e mettere da parte quel che è accaduto, che forse è ciò che più “spaventa” le vittime, ma anzi ha lo scopo, senza alcun intento vendicativo, di porre chi ha fatto del male davanti agli esiti delle proprie scelte. E chi, meglio delle vittime, può narrare il dolore e la devastazione che quelle scelte hanno lasciato, proprio come Silvia e Benedetta hanno fatto con noi? |
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