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La strada della verità non è uguale per tutti Sono convinto della necessità di essere spietatamente schietti con i propri cari, ma qualche volta è davvero una fatica immane imparare a non mentire più
di Marino Occhipinti, novembre 2006
Nel suo intervento il dottor Pavarin, il Magistrato di Sorveglianza di Padova, ha sviluppato alcune argomentazioni molto interessanti, che mi hanno indotto a più di una riflessione. In questa sede preferisco soffermarmi però solo sul suo invito finale a dire sempre e comunque la verità, anche quando dire la verità – per chi ha commesso un grave reato – significa mettere a rischio l’unico autentico appiglio morale ed emotivo a cui può aggrapparsi una persona che, sia pure per sua colpa, si sente d’un tratto tutto il mondo contro: l’affetto e la fiducia “di appartenenza” che nutrono ancora in lui i suoi familiari. Per quanto in linea di principio apprezzi e condivida l’invito del Magistrato di Sorveglianza di Padova ad avere il coraggio della verità sempre e comunque, sono dell’idea che è difficile stabilire e “codificare” comportamenti-standard validi per tutte le situazioni. Ogni contesto è infatti diverso dall’altro, in special modo quando a dover subire il peso devastante di confessioni tanto gravi sono i figli. E sulla decisione se dir loro la dura verità o rifugiarsi dietro lo schermo di un rassicurante castello di bugie pesano almeno due fattori: il primo è di ordine anagrafico, perché spiegare a un bambino di cinque anni che suo padre è in carcere perché ha commesso un crimine è sicuramente più complicato che spiegarlo a un bambino che di anni ne ha dieci; il secondo è invece di carattere morale, perché chi è responsabile di un reato “minore”, come un furto, avrà certamente meno difficoltà a confessare la propria colpa di uno che ha commesso un delitto ben più inquietante, come l’omicidio. Per cercare di spiegarmi meglio provo a raccontare, seppure per sommi capi, quella che è stata la mia situazione, o meglio il mio “percorso”. Quando fui arrestato le mie due figlie avevano tre e sei anni, e per giustificare l’improvvisa sparizione del loro padre i miei scelsero la scusa più banale e apparentemente più rassicurante, dicendo loro – proprio come ha descritto il dottor Pavarin nel suo intervento – che… “papà è via per lavoro, ma tornerà presto…”. Francamente credo che in quei momenti non avessero alternative, perché travolti com’erano loro stessi dalle angosce e dai mille problemi anche pratici provocati dal mio improvviso arresto (ero un “regolare”, e nessuno si sarebbe aspettato da me qualcosa del genere) non avevano certo il tempo, né la serenità, per approntare strategie giustificatorie più sofisticate, e tantomeno per mettere le bambine di fronte a una verità troppo più grande, e più dura, di loro. Lo stratagemma, comunque, ebbe un’efficacia molto limitata nel tempo. Dopo un paio di mesi, a ogni mia telefonata la più grande delle mie figlie cominciò a dirmi di aver smesso di piangere, che non mi pensava più e che non mi voleva più bene. Un comportamento tutto sommato comprensibile, in una bambina ormai abbastanza sveglia da non credere più, dopo tante settimane di mia assenza, alla pietosa “balla” del papà via per lavoro. Che altro poteva pensare, se non che l’avessi abbandonata? Una psicologa consigliò allora ai miei di raccontarle la verità, perché la pur bruciante delusione che avrebbe provocato in lei sapere che suo padre aveva sbagliato ed era finito in prigione sarebbe stata comunque meno grave del senso di abbandono indotto dalla mia improvvisa e immotivata sparizione. La verità le fu detta, anche se solo in parte e in maniera edulcorata (“papà ha fatto una cosa sbagliata e dovrà stare in carcere per un po’…”), e in effetti la situazione, quanto meno sotto il profilo affettivo, cominciò a stabilizzarsi: mia figlia tornò a dimostrarsi affettuosa con me, perché aveva capito che non me n’ero andato di casa di mia volontà. Insomma: che non l’avevo “tradita”.
Chi avevo ingannato, dunque, se non me stesso?
Quanto al secondo fattore, quello di carattere morale, pesa ancora di più di quello “anagrafico”, e influisce molto più a lungo nel tempo. Più un bambino cresce e acquista capacità di comprensione, più diventa arduo confessargli di aver commesso un reato, tantopiù se molto grave: se ha l’età per capire, ha infatti anche l’età per giudicare, e dirgli la verità – quando la verità è tremenda – vuol dire aprire nella sua coscienza e nei suoi sentimenti scenari imprevedibili. Io comunque, proprio perché ero consapevole di avere imputazioni da ergastolo, scelsi all’inizio con le mie figlie – come del resto con tutti i miei parenti – la strategia difensiva più sfrontatamente banale, che era anche la più lontana dalla verità: mi ostinai infatti per mesi e per anni a rivendicare la mia innocenza nonostante tutte le circostanze fossero contro di me. Ai magistrati ribadivo continuamente che erano incappati in un errore, che io proprio non c’ero la sera dell’omicidio, che la perizia balistica non dimostrava un bel niente perché quel fucile non era in mio possesso, che le dichiarazioni di quella tal persona erano frutto di pura fantasia, eccetera… Col mio cocciuto negare, in realtà, non facevo che ingannare me stesso, dal momento che bastava un decimo degli elementi in possesso della magistratura per condannarmi, come poi è puntualmente avvenuto. E io in fondo ero consapevole – mentre protervamente la sostenevo - che la mia proclamata innocenza faceva acqua da tutte le parti, ma la mia ostinazione trovava alimento nella mia stessa difesa, che all’epoca - anche per il clamoroso risalto che il processo aveva nell’opinione pubblica - era finalizzata più a sganciarmi del tutto da quella tremenda vicenda che a limitare i danni, alleggerendo le mie personali responsabilità almeno sotto il punto di vista giudiziario: “Potranno anche condannarmi per la partecipazione all’omicidio – pensavo – ma io continuerò a dire che non è vero. Forse almeno i miei familiari mi crederanno e potrò continuare a guardarli negli occhi… Quanto alle mie figlie, non dovranno mai sapere quello di cui è responsabile il loro padre…”. Ora, mentre scrivo, ripenso alla mia ottusa testardaggine di allora e la trovo patetica: qualche anno dopo, quando decisi che era giunto il momento di voltare pagina e di ammettere finalmente le mie responsabilità, le mie sorelle e mio fratello mi dissero infatti che avevano smesso da un pezzo di credere alla mia innocenza. Chi avevo ingannato, dunque, se non me stesso? Quello della chiarezza è stato un momento doloroso, ma è quantomeno servito a sanare parzialmente, se non del tutto, una delle tante “fratture” (per usare quest’efficace espressione del magistrato) che ho causato con i miei reati. In seguito infatti i miei parenti mi hanno confidato che all’epoca dei miei cocciuti dinieghi la loro fiducia nei miei confronti era ridotta al lumicino, mentre ora che avevo trovato la forza di dire loro la verità avevano riscoperto la voglia di credere in me e nel mio riscatto come uomo, come persona. Il che non è poco, quando ti rendi conto che senza la fiducia e l’affetto delle persone che ti vogliono bene non ce la potresti mai fare a uscire dal buco nero in cui ti sei cacciato. Ristabilire un rapporto di verità con i miei mi ha dato una grande forza, anche se è stato e continua a essere doloroso pensare ai lunghi anni in cui li ho ingannati rivendicando un’insostenibile innocenza. Nonostante mi ostinassi a tradirli, mentendo, non mi hanno mai abbandonato, e questo mi fa sentire doppiamente grato ma anche doppiamente in colpa nei loro confronti. E però mi dà anche forza, perché per un uomo chiuso in gabbia con “fine pena mai” è fondamentale conservare robuste radici affettive.
Le mie figlie avrebbero bisogno di risposte più approfondite di quelle che sono riuscito a dare loro finora
Mio padre non lo vedo da sei anni e mezzo, ma mica perché mi abbia rinnegato come figlio. Tutt’altro. Nei primi anni della mia carcerazione veniva di tanto in tanto a trovarmi, ma l’emozione era più forte di lui. Al punto che riusciva a malapena a farfugliarmi un saluto all’inizio e alla fine del colloquio: per il resto, lacrime, solo lacrime, in un uomo che prima non avevo mai visto piangere. Ha preferito smettere di venire a trovarmi, piuttosto che vedermi qui dentro. Di mia madre, invece, ogni mese vedo la fatica sul viso quando, per venire ai colloqui, si alza alle tre di notte. Dopo un’ora di macchina, il cambio di tre treni e trecento chilometri percorsi, alle 7.30-8 si presenta ai cancelli del Due Palazzi, in prima fila; un’ora di colloquio e via, in un percorso a ritroso fatto in tutta fretta “perché poi, altrimenti, non ce la faccio a guidare per l’ultima ora di tragitto con il buio”. Mio fratello me lo “rivedo” il giorno di Natale del ‘94, anno in cui sono stato arrestato, davanti alle mura del carcere in cui allora ero rinchiuso. All’epoca poco più che ventenne, in quel giorno di festa lasciò la sua ragazza, si fece duecentocinquanta chilometri tra la neve e si presentò all’istituto in cui ero recluso con un panettone in mano, a implorare gli agenti affinché me lo consegnassero. In quel periodo, però, mi trovavo in totale isolamento e quindi non potevo avere contatti né visivi né telefonici con nessuno: quando la sera mio fratello giunse a casa, quel panettone era ancora lì, sui sedili della sua vettura… Dopo il mio arresto la mia sorella più grande si separò. Non le ho mai chiesto se la mia vicenda giudiziaria possa aver in qualche modo influito sulla sua “scelta”, e credo che non troverò mai il coraggio di domandarglielo. L’altra mia sorella, invece, dopo pochi mesi dal mio arresto cedette il negozio di estetica che con tanti sacrifici aveva avviato in un piccolo paese. “Oramai mi ero stancata”, mi confidò un giorno. Ma anche in questo caso ho sempre cercato di non approfondire troppo. Dei problemi psicologici e anche di salute che la mia vicenda ha causato alle mie figlie, e dei tanti disagi materiali e morali che ho procurato loro, ho già scritto in altri articoli e preferisco evitare di tornarci sopra, fatta eccezione per un aneddoto che riguarda la più grande. Mi ha raccontato mia moglie che all’epoca del processo, quando i giornali erano pieni di articoli che parlavano della mia brutta storia, al bar dove l’accompagnava per fare colazione, prima dell’ingresso a scuola, si dimostrava molto più interessata ai quotidiani posati sui tavoli che al suo cappuccino e alla sua brioche. Evidentemente “sentiva” che in casa non le veniva raccontata tutta la verità su suo padre, e cercava di carpire qua e là qualche notizia in più. Anche per me, del resto, è stato molto più difficile aprirmi con le mie figlie che con gli altri miei parenti. E sono persuaso che sarei ancora prigioniero della mia indecisione se un giorno non mi fossi trovato, del tutto inaspettatamente, davanti al fatto compiuto. 13 settembre 2001: un giorno che non potrò mai dimenticare. Mi fu concesso di incontrare mia moglie e le mie figlie, che erano venute a trovarmi, non nell’affollata e spesso assordante sala-colloqui ma nella cosìddetta “area verde”, ovvero in una piccola fetta di giardino appositamente attrezzata che quel giorno era a nostra esclusiva disposizione, per via di una fastidiosa pioggerella che aveva indotto tutti gli altri colloquianti a disertarla. “Hanno già dieci e tredici anni – dissi a mia moglie, osservando le nostre figlie che giocavano a qualche metro di distanza – e prima o poi dovrò raccontare loro la verità… Ma non so se troverò mai il coraggio di farlo”. “Guarda che sanno già tutto, ho pensato che fosse giusto così…”. A quella notizia, insieme dolorosa e liberatoria, fui letteralmente sopraffatto dalle lacrime. Ero consapevole che era giusto che le mie figlie sapessero, ma mi angosciava l’idea che la verità potesse abbattersi fra loro e me come un macigno, mettendo a repentaglio l’affetto e la stima che fino ad allora, nonostante la mia carcerazione, avevano conservato per me. Riuscii a farfugliare a malapena qualche parola confusa, e non so davvero come sarei uscito da quella situazione se loro, intuendo il motivo della mia angoscia, non mi avessero anticipato assicurandomi che io ero e sarei rimasto il loro papà, che nulla sarebbe cambiato nel loro rapporto con me. A distanza di cinque anni le mie figlie hanno mantenuto la loro “promessa”, ma io continuo a vivere con l’angoscia che un giorno possano cambiare atteggiamento nei miei confronti. La verità non è più un tabù, fra di noi. Ma tutta la verità è un’altra cosa, e a volte penso che avrebbero bisogno di risposte più approfondite di quelle che sono riuscito a dare loro finora. Forse, occorrerà prima o poi qualche ulteriore “sblocco”, da parte mia. Ma non è facile: anzi, è terribilmente difficile. E così, sebbene in linea di principio sia assolutamente d’accordo sulla necessità di essere spietatamente schietti con i propri cari, resto dell’idea che la strada della verità non è uguale per tutti. È, infatti, un percorso tanto più difficile quanto è più grave il reato di cui ci si è macchiati. |
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