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Una persona che ha ucciso non può permettersi di perdere il senso della propria “diversità”
di Marino Occhipinti, giugno 2006
La nomina a segretario di Presidenza della Camera del deputato radicale Sergio D’Elia, ex componente del gruppo terroristico Prima Linea che ha scontato in passato molti anni di prigione per reati connessi a gravi fatti di sangue, anche se non da lui direttamente commessi, ha riacceso nelle settimane scorse una polemica che, regolarmente, si ripropone ogni qualvolta una persona che ha violato il quinto comandamento – non uccidere – espiata la propria pena si riaffaccia in società in una dimensione pubblica. La sostanza del dibattere si riassume essenzialmente nel seguente quesito: un omicida torna a essere una persona in tutto e per tutto uguale alle altre, una volta che abbia saldato il suo debito con la giustizia, o continua a gravare – su di lui e prima ancora in lui – il peso di una diversità irrimediabile? Io non me la sento di dare fiato alle coscienze altrui, ma alla mia sì. E a questo quesito – che mille volte mi sono posto non in linea di principio ma come parte direttamente in causa, essendo io stesso un omicida – rispondo senza il minimo dubbio che chi uccide i conti non può mai saldarli fino in fondo. Sia perché il male che ha commesso ha la prerogativa dell’irrimediabilità (l’espiazione della condanna anche più pesante non restituisce la vita a chi per mano sua l’ha persa), sia perché uccidendo ha infranto quello che per tutti, in ogni angolo del mondo su cui batta il sole della ragione e della pietà umana, è il valore più alto: il primato assoluto della vita. Per questo credo che la condanna scontata e il pentimento più sincero possono e anzi debbono restituire alla società degli “ex” ladri, degli “ex” rapinatori, degli “ex” truffatori, cioè persone affrancate dalla colpa per il fatto stesso d’averla espiata, ma non degli “ex” assassini. Chi ha ucciso ha comunque e per sempre ucciso, e dell’ombra della propria colpa non potrà mai liberarsi del tutto, né agli occhi del mondo né – e tanto meno –agli occhi di se stesso. Con questo non voglio dire che una volta tornato libero dopo lunghi anni di galera un omicida debba ridursi a vita da catecumeno, camminando radente i muri e abbassando gli occhi ogni volta che incrocia qualcuno. Voglio dire soltanto che non può permettersi di perdere il senso della propria “diversità” e che, quantomeno, deve imparare a mettere la sordina alle proprie esuberanze, rendendosi conto che le sue parole e i suoi comportamenti se leggeri rischiano di suonare vanesi, se biliosi allarmanti, se azzardati irresponsabili, se moralmente discutibili, provocatori e inquietanti. Non è una questione di auto-censura ma di misura e, semmai, di auto-educazione, perché tornare a vivere fra gli altri dopo essersi macchiati di un delitto così grave è un po’ come rinascere dal proprio stesso massacro, e occorre “rieducarsi” molto di più di quanto facciano, o aiutino a fare, la galera e la sua discutibile più ancora che carente pedagogia. Per quel che mi riguarda, in tutti questi anni di carcere ho quasi sempre mantenuto la tendenza a scegliere le ultime file della platea piuttosto che le prime, ma non me la sento di dire che questa sia una ricetta valida per tutti, perché in fin dei conti anche il mio è comunque stato un percorso non lineare. Infatti, per lunghi anni, mi sono attentamente nascosto: se nella redazione di Ristretti Orizzonti, nella quale svolgo la mia attività di redattore-detenuto, entrava un giornalista, o una tv, mi rendevo “invisibile”, soprattutto e proprio per il timore della strumentalizzazione. Adesso però ho maturato la convinzione, ed anche in questo sono stato aiutato, che sia forse più dignitoso “mostrarsi” – pur con tutte le debolezze ed i disagi del caso – e fare i conti con la realtà piuttosto che continuare a tenere la testa infilata sotto la sabbia, o peggio ancora nel pantano. Però, per arrivare a tale comportamento, ho dovuto prima imparare ad accettarmi, ed anche questo è un cammino a volte lungo e doloroso. Così, pur continuando a rifiutare categoricamente qualsiasi proposta di intervista che abbia come oggetto la mia vicenda giudiziaria, ho pian piano iniziato a scrivere e firmare articoli con un “taglio” comunque generale, legati alla detenzione, ai reati ed a chi li ha commessi. Tornando al discorso di base, non bisogna comunque dimenticare che ci sono persone che hanno ucciso, e magari ucciso in giovane età, e che dopo avere espiato una lunga condanna tornano in società con una consistente aspettativa di vita e con l’idea di avere ancora cose importanti e degne da dire e da fare. In questi casi capisco che sia molto più difficile, scegliere l’ombra; e che in fondo non sia neppure giusto sceglierla in via pregiudiziale, perché esistono persone che hanno davvero saputo distillare dal male che hanno fatto (e almeno giudizialmente pagato) risorse di sensibilità, di maturità, di passione umana e civile che possono tornare utili anche agli altri. Ciò non di meno anche su queste persone continua a gravare il peso di una colpa che non si estingue, ed è giusto pertanto che al coraggio di esporsi uniscano la prudenza e il buon gusto di non sovraesporsi, rischiando così di trasformare la visibilità nella sua narcisistica degenerazione: il protagonismo, che nel loro caso sarebbe imperdonabile. |
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