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Quando l’informazione cerca il romanzo anche là dove c’è solo tragedia
di Marino Occhipinti, maggio 2006
Il fatto stesso che in tanti abbiano accolto il nostro invito a partecipare a una Giornata di Studi in carcere, organizzata con un contributo fondamentale delle persone detenute, ha per noi un’importanza enorme, perché evidentemente significa che siamo riconosciuti come persone che hanno sbagliato ma che non per questo hanno perso il diritto di parola. Bene o male – più male che bene, d’accordo – facciamo parte anche noi di questa società, e non è affatto detto che il vederla da dietro le sbarre ci renda più ciechi o più ottusi. Da tempo affrontiamo l’argomento dell’informazione sul carcere e su noi detenuti per linee generali, mettendo in luce le inesattezze, o le fuorvianti semplificazioni, in cui più frequentemente incorrono televisione e carta stampata nel parlare di noi e dei fatti di cronaca che ci riguardano. Io tenterò ora di stringere il campo alla mia esperienza personale, affinché possiate rendervi concretamente conto della pesante ricaduta che ha sulla vita delle persone un certo modo talvolta un po’ troppo disinvolto di dare le notizie, e magari di gonfiarle cercando il romanzo anche là dove c’è solo tragedia. Per un residuo di pudore che mi perdonerete, evito qualsiasi riferimento preciso alla vicenda di cronaca che mi ha avuto fra i suoi protagonisti. Mi limito a dirvi che sono stato condannato al massimo della pena, cioè all’ergastolo, e che di tanto in tanto giornali e televisioni continuano a tirare in ballo me e i miei coimputati nonostante siano ormai passati dodici anni dall’epoca dei fatti. La cosa mi amareggia, naturalmente, ma non mi stupisce più di tanto perché mi rendo conto, io per primo, che la vicenda è troppo grave perché la gente possa dimenticare. Trovo insopportabile invece che a distanza di tanto tempo il diritto all’oblio non venga garantito neppure ai miei famigliari, per i quali ogni “ritorno di cronaca” è una manciata di sale su una ferita che non si rimargina mai. Vorrei che rifletteste su cosa significa per una famiglia normale, che ha sempre vissuto modestamente e rispettando le regole, scoprire che uno dei propri membri – un figlio, un fratello, un padre – sotto la superficie rassicurante di una vita perbene ha commesso reati gravissimi, al punto di essere additato alla pubblica opinione come un nemico della collettività, come un mostro da prima pagina. È una tragedia. Ma una tragedia che ai parenti non è neppure concesso vivere al riparo della propria coscienza, come un lutto privato, perché è così dannatamente pubblica da non rispettare più niente e nessuno. Per quanto vittime, seppure in maniera indiretta, dei reati commessi dal proprio congiunto, i parenti finiscono fatalmente anch’essi nel cono di luce che avvolge il colpevole, come fossero anche loro partecipi della colpa. Non è un processo razionale, lo so, ma un’onda emozionale che viaggia per logiche sue e che forse è impossibile contenere. Ma se questo ha un senso “al presente”, quando cioè un fatto avviene e irrompe nelle cronache con la prepotenza dell’attualità, non è detto che necessariamente lo abbia anche in seguito, quando la sovreccitazione dell’attualità si è placata e dovrebbe prevalere in tutti la misura, la riflessione, il rispetto per le persone e per la loro privacy. E così, se incolpo soltanto me stesso per le ferite che le mie scelte criminali hanno comportato all’intimità e alla dignità dei miei in passato, quando i reati furono commessi e poi giudicati in tribunale, non posso invece non prendermela anche con i media per le ulteriori ferite che di tanto in tanto continuano a essere perpetrate nei confronti di mia madre, di mia moglie, delle mie figlie, tirandole direttamente o indirettamente in ballo ogni volta che la mia storia viene rispolverata, spesso del tutto arbitrariamente, all’unico scopo di riattizzare la curiosità un po’ morbosa dei lettori e dei telespettatori. Vi faccio solo un esempio, il più recente. Non più tardi di un mese fa, a dodici anni di distanza dal mio arresto, una giornalista ha telefonato a mia madre per chiederle un’intervista. Sarà stata anche gentile e riguardosa, per carità, ma che senso ha andare a rigirare il coltello nella piaga a una donna che nulla aveva da dire allora come oggi, e che adesso non aspira ad altro che a vivere in pace, con quel po’ di serenità che le resta? Potrei forse capire se il mio fosse uno di quei casi controversi e pieni di zone d’ombra in cui c’è ancora spazio per il cosiddetto giornalismo investigativo; ma il mio caso è stato scandagliato in profondità come pochi altri, ed è tutto “nero su bianco” su carte processuali alle quali i giornali hanno già attinto mille volte. Che bisogno c’è, allora, di andare a caccia di scoop inesistenti, e comunque fuori tempo massimo, mancando sostanzialmente di rispetto a una persona che ha già così pesantemente pagato per colpe non sue? Io non pretendo l’oblio per me, ma per mia madre, per mia moglie e per le mie figlie sì, lo pretendo. Hanno già pagato, e anche troppo, all’epoca in cui accaddero i fatti. Ricordo soltanto che, subito dopo il mio arresto, la mia casa fu letteralmente presa d’assalto dai giornalisti, che vi si accamparono giorno e notte davanti. Già travolte e stravolte dalla tragedia che gli era capitata addosso a cielo assolutamente sereno (il mio arresto avvenne a qualche anno di distanza dai reati, di cui peraltro nessuno dei miei era a conoscenza, e io conducevo una vita assolutamente regolare), mia moglie e le mie figlie furono costrette a cercare riparo in casa di parenti per sottrarsi a un assedio tanto più insopportabile quanto più coincidente, per loro, con un momento di disperazione totale, in cui la loro vita fino a ieri serena andava in frantumi e finiva nel fango, sotto gli occhi di tutti. Ricordo ancora che, all’epoca del processo, alcuni giornali arrivarono al punto di pubblicare la fotografia di mia moglie con tanto di didascalia (“la signora…, moglie di…”), associando così anche visivamente mia moglie alle mie colpe, e quindi additando pure lei – quanto meno in via subliminale – alla pubblica riprovazione.
Il rispetto della dignità personale è un diritto di tutti, anche di noi detenuti
Tempo fa si parlava un po’ meno di tutela della privacy di oggi, per cui certe indiscriminate invadenze nella vita delle persone direttamente o indirettamente inguaiate con la giustizia erano forse più comprensibili. Mi sorprende invece che tali eccessi continuino a essere all’ordine del giorno anche adesso, nonostante il Garante abbia negli anni scorsi più volte ribadito che le vigenti norme a tutela della privacy valgono – in buona sostanza e fatta eccezione solo per poche e ben precise circostanze – anche per gli indagati, per le persone sotto processo e perfino per noi che scontiamo in galera pene definitive. E che tanto più valgono, evidentemente, per i nostri famigliari. Il tempo per guardare la televisione e per leggere i giornali a noi detenuti non manca, e vi assicuro che continuano a essere molti, moltissimi, i casi in cui noi e i nostri famigliari veniamo dati in pasto al pubblico senza alcun riguardo per la nostra natura di persone titolari comunque, al di là delle nostre responsabilità e delle nostre colpe, del diritto al rispetto e alla dignità personale che si deve riconoscere a ogni essere umano. Mi rendo conto che la cultura della privacy è ancora troppo recente, in Italia, perché abbia fatto a tempo a permeare di sé la nostra società nella sua interezza, diffondendo in tutti la cognizione che il rispetto della dignità personale non è un privilegio di qualcuno ma un diritto di tutti, figli cattivi compresi. Credo però che i mezzi di informazione debbano svolgere un ruolo più attivo nella diffusione di questa cultura, cercando di coniugare il pur sacrosanto diritto di cronaca con un atteggiamento più rispettoso e più umano nei confronti delle persone che ci finiscono in prima persona, “in cronaca”. Se questo avvenisse, io credo che sarebbe un vantaggio per tutti. Per noi, che saremmo più motivati a riguadagnare la fiducia di una società che un giorno abbiamo offeso ma che non ci respinge per sempre; per le nostre famiglie, che non si sentirebbero macchiate da colpe che hanno solo subito; per gli stessi mezzi di informazione, che assolverebbero così alla loro funzione più alta: quella di rispecchiare una società che non ha paura di guardare le proprie ferite, ma che soprattutto pensa a curarle. |
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