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Ma davvero tutti i reclusi meritano di stare dentro? E qualcuno si ricorda che i recidivi sono molti di più tra chi non ha mai usufruito di benefici e misure alternative?
di Marino Occhipinti, dicembre 2005
Che le carceri scoppiano lo troviamo oramai scritto ovunque e sempre più spesso. Noi detenuti lo sappiamo bene, dal momento che il disagio del sovraffollamento lo viviamo quotidianamente sulla nostra pelle, e lo sanno altrettanto bene anche i cittadini liberi, che per tutta risposta invocano la certezza della pena senza però avere la minima idea di quale sia la composizione della “popolazione detenuta” ed il grado di pericolosità di chi sta dietro le sbarre. Eccezion fatta per alcune “categorie” di reclusi, quelli veramente “feroci ed incalliti” che hanno lunghe condanne da scontare e per i quali la detenzione appare inevitabile, la popolazione carceraria è composta da un 30 per cento circa di tossicodipendenti e da un altro 30 per cento di stranieri. Persone, queste, che hanno commesso reati più per disperazione ed emarginazione che non per “animo criminale”. Circa 10-12mila delle 35mila persone che scontano una condanna definitiva (le altre sono in attesa di essere giudicate, quindi presunte innocenti) hanno una pena inferiore ai tre anni. Alcune migliaia, addirittura, sono a pochi mesi dal fine pena, e l’esiguità della condanna lascia presumere che non siano di una pericolosità tale da essere per forza “lasciate” in carcere fino all’ultimo giorno. Potrebbero essere ammesse ai benefici penitenziari se soltanto disponessero di un lavoro e di una famiglia, come nel caso degli stranieri che, si sa, non hanno risorse né tantomeno affetti: quelli li hanno lasciati al loro Paese quando sono partiti in cerca di maggior fortuna, proprio come hanno fatto molti italiani qualche decennio addietro. Le misure alternative alla detenzione potrebbero veramente rappresentare un valido rimedio contro il sovraffollamento carcerario. Tanto per fare un esempio, le statistiche dicono che i reati commessi durante la fruizione della semilibertà o dell’affidamento in prova al Servizio sociale sono prossimi allo zero, i più bassi in Europa. Perché allora ci sono zone d’Italia in cui i benefici vengono concessi con il contagocce? E se il modello della Casa di reclusione di Padova (e relativa magistratura di Sorveglianza), dalla quale ogni mattina escono a lavorare oltre 60 persone che puntualmente la sera rientrano a dormire, venisse “esportato” anche nel resto della Penisola? In fin dei conti non si tratterebbe di “liberare” criminali di chissà quale spessore, quelli rimangono in carcere lo stesso (a scanso di equivoci e “conflitti d’interesse”: sono detenuto da oltre 11 anni e non ho quasi nulla di cui lamentarmi), ma persone che, nel giro di breve tempo, la libertà la riacquisterebbero comunque. Concedendo loro una misura alternativa alla detenzione si permetterebbe di avviare un percorso, controllato e sostenuto, che avrebbe anche e soprattutto una funzione anti-recidiva: una recente ricerca del Gruppo Abele ha evidenziato che il 12 per cento di recidivi è costituito da persone passate attraverso le misure alternative, mentre il 61 per cento da chi non ha mai lasciato il carcere fino alla fine della pena. Segno che il solo carcere, senza l’offerta di opportunità trattamentali e di un graduale reinserimento, serve a ben poco. Anzi, in molti casi logora e magari distrugge ciò che di positivo la persona aveva fuori: la famiglia, gli amici, il lavoro… Il problema del sovraffollamento è sì il più impellente da risolvere, anche perché dal numero esagerato di persone detenute rispetto ai posti realmente disponibili dipendono tutta un’altra serie di difficoltà. Come si può pensare di “contenere” tanti reclusi nello spazio in cui dovrebbero essercene 20mila in meno? E non è soltanto – nonostante si tratti di un problema drammaticamente “serio” – una questione legata esclusivamente alla ricettività, agli spazi vitali nudi e crudi. Quali attività “trattamentali”, e di istruzione o lavorative, si possono svolgere in un carcere costruito e “calibrato” per ospitare 90 persone se invece ve ne sono stipate più di 250 (non si tratta di un’ipotesi fantasiosa né artatamente esagerata: l’istituto appena descritto è la Casa circondariale di Padova, il “giudiziario”, ma di realtà simili sparse per l’Italia ve ne sono molte altre)?
Le cose cambierebbero davvero se la permanenza in carcere venisse riservata soltanto a chi non può ancora fruire delle misure alternative alla detenzione
Come si può pensare di rinchiudere per anni una persona “in cattività”, senza offrirle condizioni di vivibilità almeno accettabili e dignitose, e poi sperare che una volta uscita segua la retta via e diventi improvvisamente rispettosa delle regole di civile convivenza? La galera dovrebbe rappresentare anche un “momento” in cui gli operatori penitenziari “agganciano” la persona che ha sbagliato, e con questa cercano di “lavorare” per costruire qualcosa di diverso, ma per fare ciò occorrono anche gli strumenti e le risorse – umane ed economiche – di cui attualmente gli istituti di pena italiani, sempre a causa del sovraffollamento, non dispongono. Se la permanenza in carcere venisse riservata soltanto a chi non può ancora fruire delle misure alternative alla detenzione, forse la pena diventerebbe veramente, almeno in parte, rieducativa e quindi non del tutto inutile per chi sta dentro e, in proiezione futura, anche e soprattutto per chi sta fuori. Se si considera che ogni anno le persone detenute aumentano mediamente di 2-3000 unità, che sono state approvate leggi come la ex-Cirielli che non lasciano presagire nulla di buono, e che le risorse destinate al pianeta carcere subiscono continue contrazioni, se ne deduce che il sistema carcerario è prossimo al collasso. La situazione è insostenibile ora, che nei penitenziari italiani sono rinchiuse circa 60mila persone, e cosa succederà tra un paio d’anni, quando nella migliore delle ipotesi i detenuti da gestire saranno almeno 10mila in più? Infine, che dire del nuovo Regolamento penitenziario, che dopo oltre 5 anni dalla sua approvazione giace in buona parte inapplicato, alla faccia dell’acqua calda o addirittura della doccia in cella? In molte carceri del Sud Italia, dove non si guarda tanto per il sottile, soprattutto d’estate l’acqua si accontenterebbero semplicemente di averla, calda o fredda che sia poco importa. Scontare una pena detentiva significa essere privati della “sola” libertà. Non si capisce allora in quale contesto rientrino tutte le altre “privazioni” giornaliere non previste da alcun regolamento né legge dello Stato. E dividere in dieci persone lo spazio previsto per tre o quattro, magari con la “turca” a vista (nello stesso ed unico locale dove si mangia, si dorme e si vive chiusi per 22 ore al giorno), con i letti a castello a tre piani, senza un briciolo di lavoro e con un sistema sanitario penitenziario che non lascia proprio tranquilli, con una “giustizia lumaca” ma inflessibile che magari arriva dopo dieci anni dal reato, quando i “problemi” sono oramai superati… beh, le “privazioni supplementari” sono tante e non da poco. |
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