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Tossicodipendenza e carcere: la testimonianza di Marco
Di Marco, febbraio 1999
Pubblichiamo la testimonianza di Marco per far capire che, se la detenzione è dura per tutti, lo è forse doppiamente per i tossicodipendenti, tra crisi di astinenza, abuso di psicofarmaci, tentativi di suicidio, condanne per piccoli reati che si sommano, esperienze contraddittorie in comunità.
I miei tentati suicidi sono derivati da tantissimi motivi e dal fatto che in carcere mi escono problemi di ansia e depressione che tante volte non riesco a controllare, odio la monotonia, il chiuso, continuo a rivangare il passato, tante volte sono depresso, non riesco a reagire e ogni mattina quando mi sveglio sono angosciato, pensando che devo passare un’altra giornata di galera: il carcere è troppo brutto. Così sono passati per me questi ultimi anni: il 27 Febbraio del ‘96 sono uscito in sospensione pena da Monza per andare in comunità. In carcere avevo preso per cinque mesi due Prozac al giorno (antidepressivo) e 90 gocce di En (ansiolitico), un mese prima che uscissi ho scritto alla dottoressa del Ser.T. di Verona che mi segue, dicendole che seguivo questa terapia e che quando arrivavo in comunità mi dovevano fare uno "scalaggio" senza interromperla bruscamente, come mi era già capitato in un’altra comunità. Arrivo invece in comunità e mi interrompono la terapia di colpo: e mi ritrovo con stati d’ansia, attacchi di panico, irrequietezza, e loro, gli operatori, non facevano niente. Sono andato via ben dieci volte dalla comunità, fino a che alla fine mi hanno messo in accoglienza, hanno telefonato al Ser.T. e la dottoressa che mi conosceva non c’era, c’era una sua collega, che mi ha ordinato un farmaco senza parlarmi e vedermi, io ho preso questo farmaco che non avevo mai provato prima e sono collassato. La settimana dopo è tornata dalle ferie la dottoressa e mi ha chiamato dal suo ufficio, io ci sono andato e lei ha cominciato ad aggredirmi verbalmente, perché ho interrotto una terapia che mi aveva ordinato una sua collega. Io mi sono alzato e me ne sono andato. Mi sono poi fatto riaccompagnare da un obiettore in comunità. Dopo una settimana sono andato via, perché non ce la facevo più, e sono arrivato a Milano da don Antonio Mazzi, io da don Antonio ci ero stato tre anni e avevo passato momenti indimenticabili e bellissimi. Sono arrivato a Milano e ho trovato don Antonio, che mi ha detto: Marco, la porta per te è sempre aperta, ma mi devi dimostrare che vuoi veramente entrare; per il momento tieniti in contatto con Maurizio, responsabile di "S.O.S. Stazione Centrale di Milano". Ogni giorno passavo da Maurizio e parlavo e poi me ne andavo, un pomeriggio lui mi ha consigliato di andare in cascina (sede centrale della comunità "Exodus"), perché volevano parlarmi: ci sono andato e ho trovato Sandro, che mi ha detto: "Mi ha chiamato don Antonio e mi ha chiesto di farti entrare, adesso devo contattare il tuo assistente sociale e dirgli che vieni da noi". Quando l’ha chiamato, il mio assistente però gli ha detto: "Marco era già in una comunità, e quindi non se ne fa niente", e in quel momento mi è crollato il mondo addosso non sapevo cosa fare, sono andato da Maurizio che mi ha suggerito di prendere il treno e andare a Verona a parlargli. Sono arrivato a Verona il 26 giugno del ‘97 e sono andato all’Ospedale di Borgo Roma perché ero in uno stato di confusione. Esco poi dall’ospedale, incrocio una pattuglia dei Carabinieri, mi fermano per un controllo dicendomi di seguirli in caserma. Arrivo in caserma e il comandante mi comunica che avevo due anni e nove mesi di definitivi, io gli rispondo "Guardi che si sbaglia, non ho mai preso condanne così alte". Ha ricontrollato e sono risultati questi due anni e nove mesi definitivi: mi avevano condannato in contumacia per tre furti d’auto mentre ero detenuto a Monza, senza ricevere nessun tipo di notifica. Mi hanno portato a Montorio (il carcere di Verona) ed ero un po’ più tranquillo perché mi trovavo nella mia città, che amo tantissimo, vicino ai miei famigliari, nonostante fossi in carcere.
Ho attaccato la corda alla finestra del bagno, non volevo più sapere niente Ho fatto venti domandine per parlare con il mio assistente sociale e con la dottoressa del Ser.T., ho scritto 13 lettere e due telegrammi al responsabile del Ser.T. di Verona, ma quando finalmente la dottoressa del Ser.T è venuta mi ha detto solo queste parole: il Ser.T. di Verona non è più disposto ad aiutarti. Sono uscito con un blocco allo stomaco, ce l’ho anche adesso scrivendovi queste cose e mi viene da piangere dalla rabbia, dal nervoso. Dieci giorni dopo mi chiama la matricola e mi comunica un anno e dieci mesi definitivi, per un furto di un’auto Fiat Uno. Mi hanno condannato, sempre in contumacia, il 4.11.96, mentre ero detenuto a Monza (e condannato dalla Pretura della stessa città!). Io mi chiedo: come non sapeva la Pretura di Monza che ero detenuto nel suo carcere? Boh! Mi sono sentito a terra, con quasi cinque anni di condanna senza avere avuto la possibilità di avere un processo regolare. Alla sera ero nervoso, mi prese un blocco allo stomaco verso l’una di notte, mentre il mio compagno di cella dormiva, ho attaccato la corda alla finestra del bagno, non volevo più sapere niente, ho preso lo sgabello, mi sono legato la corda al collo e nel frattempo è passato l’agente a fare la conta: mi ha trovato sullo sgabello, la corda attaccata al collo, io piangevo e lui mi diceva di stare calmo, finche sono arrivati con le chiavi ed hanno aperto. Ho fatto per tre mesi dei colloqui con lo psicologo, mi hanno fatto tante promesse, ma alla fine vedevo solo delusioni. Il 4 Ottobre del ‘97 vengo trasferito qui a Padova, in un carcere penale che non conoscevo, con cinque anni di condanna, e sono andato allora in depressione totale. Quando si sono aperte le porte e ho visto il carcere, dentro me stesso mi sono detto: da qui non esco più. Mi hanno messo al terzo piano, subito i primi giorni avevo un po’ di timore, perché il mio compagno di cella era dentro per omicidio, mentre io ho fatto sempre carcerazioni brevi, al massimo cinque mesi, per furto d’auto. Piano piano ci siamo conosciuti, tante volte lo tiravo su io di morale, perché aveva i sensi di colpa e me ne dispiaceva tanto. Una settimana dopo mi chiama l’educatrice, ci siamo presentati e le ho spiegato un po’ la mia situazione, è andata giù e ha telefonato alla dottoressa del Ser.T di Verona, chiedendole come mai non volevano più aiutare Marco. Lei le ha risposto: "N, non è vero, gli siamo vicini a Marco, e adesso cerchiamo una soluzione". Strana la cosa! Ho parlato poi con il responsabile del Ser.T. di Padova, gli ho spiegato come stavano le cose, lui mi ha detto che avrebbe parlato con il mio Ser.T., e l’ha fatto, e venti giorni dopo mi ha chiamato dicendomi "Ho parlato con la dottoressa di Verona che ti seguiva, lei mi ha detto che tu ti sei comportato male in comunità, che sei andato via più di qualche volta, che ti lamentavi, dice che hai rubato in comunità". Ho scoperto allora che la direttrice della comunità aveva scritto una relazione al Ser.T. di Verona, non hanno scritto però che Marco lavorava otto ore sotto le serre, a 40° a raccogliere la rucola, la valeriana, le zucchine, etc. Non hanno scritto che io ho fatto quattro impianti elettrici in falegnameria, gli ho sistemato i fari del cortile a quindici metri di altezza, gli ho fatto l’impianto in cucina, gli ho fatto l’impianto dove c’erano le galline perché volevano la luce, e un giorno sono anche andato a smontare tutto l’impianto elettrico di una serra riscaldata lunga quaranta metri e alta dodici metri, non hanno scritto che lavoravamo anche il sabato mattina e la domenica mattina e alla sera avevo la testa che mi scoppiava. Poi, quando me ne sono andato, ho mandato mia madre a prendere i vestiti e la direttrice le ha detto che io ho rubato in comunità e sono stato colto in fragranza da un operatore: che menzogna!
Mi considerano un tossico e di conseguenza la mia parola vale meno di niente Sono tornato in cella distrutto psicologicamente, mi sentivo impotente, angosciato, in ansia per l’attesa e per tutte le falsità che avevano detto su di me, ho reagito però, perché la mia coscienza è a posto e davanti a queste persone vado a testa alta, anche se mi considerano un tossico e di conseguenza la mia parola vale meno di niente: questa è una delle cose che mi deprimono e mi fanno più incazzare, perché chi sbaglia è sempre il detenuto, loro si ritengono perfetti però hanno sempre fallito nei miei confronti perché hanno sempre soffocato la mia volontà senza ascoltare quello che provavo e quello che desideravo fare. Mi mandavano in comunità e dovevo sempre ricominciare, mi costruivo una casa fino all’ultimo piano e loro me la buttavano giù, perché sono psicologi e in un atteggiamento sbagliato che hai o in dieci minuti di colloquio ti giudicano e ti conoscono, sembra che mi conoscano meglio di mia madre. Io quello che ho sempre cercato era un po’ di tranquillità, serenità, svago, stare vicino ai miei famigliari ed essere aiutato con l’affetto che mi manca da molto tempo. Invece, di nuovo mi viene proposto di entrare in una comunità dove ero già stato e me ne ero andato via ben tre volte, ricevo una lettera con il programma: Noi comunità… accettiamo il signor (...), che entrerà nella nostra struttura di accoglienza, dopo di che andrà in ambientamento, poi andrà a Recoaro dove farà la prima fase, la seconda e la terza e via così. Ho detto all’educatrice di lasciar perdere e sono tornato in cella. Ero fuori di me, volevo parlare con qualcuno ma non potevo perché ero chiuso in quella cella di merda a subire: alla sera continuavo a macinare pensieri, avevo la testa che mi scoppiava, alle 3 di notte sono sceso dal letto mentre il mio compagno stava dormendo, ho tagliato la coperta e mi sono attaccato in bagno, ho buttato giù lo sgabello e mi è cominciato un formicolio per tutto il corpo, la testa che mi girava, il respiro che mi mancava, mi sono svegliato dieci minuti dopo in braccio al mio compagno, avevo perso i sensi. Mi hanno accompagnato in ospedale, mi ha visitato l’internista e poi ho avuto un colloquio con lo psichiatra. Sono tornato alle 5,30 del mattino e lì mi Sono reso conto della cazzata che avevo combinato ed ero contento di essere vivo, però quello che mi preoccupava era di non essermene reso conto prima di farlo. Una settimana dopo mi hanno ammesso alla sezione a custodia attenuata del Due palazzi. Lì ho trovato un ragazzo che era stato con me a San Vittore, mi sono messo in cella con lui e mi trovavo bene, perché mi conosceva e perché mi parlava, mi tirava su di morale. Ho passato un periodo in cui stavo benissimo, scrivendo ai miei e facendo i colloqui li ho convinti a prendermi a casa, ho scritto al mio vecchio datore di lavoro che non vedevo da dieci anni (ho lavorato per lui nove anni, sono stato il primo operaio della sua fabbrica appena aperta, avevo tredici anni allora), che si è detto disponibile a riassumermi. Ma in camera di consiglio la Questura di Verona ha detto che io a Verona faccio parte di una associazione criminosa, gli ho detto: ma come fa la Questura ad affermare una cosa del genere se manco da 8 anni da Verona e non faccio parte di nessuna associazione criminosa? L’istanza di affidamento mi è stata così respinta. Qui in sezione attenuata mi sono messo allora in contatto con il Centro di Accoglienza di Padova e con il direttore del Ser.T. di Padova, e insieme abbiamo preso un accordo, dovevo entrare nella loro struttura con un programma di 4 mesi, passando alcuni week-end a casa e poi un graduale inserimento a casa mia e a lavorare dal mio ex datore di lavoro. Nel frattempo il direttore del Ser.T. di Padova manda una lettera al Ser.T. di Verona, dicendo che il Ser.T. di Padova ha ritenuto opportuno per me un programma socio-riabilitativo sul territorio, avendo la disponibilità dei miei genitori e del datore di lavoro, ma da Verona rispondono no a questo programma, perché ritengono preferibile un programma terapeutico in comunità. Intanto il Magistrato Sorveglianza mi concede un permesso a casa mia di otto ore, accompagnato da una assistente del Ser.T., per il 9 giugno, cioè martedì. Venerdì 6 giugno, per una questione di calcio mi sono menato con un ragazzo, lunedì mattina mi chiamano giù in matricola e mi revocano il permesso, era il primo e ci tenevo tantissimo, giù all’aria lo scemo rideva perché mi avevano revocato il permesso, ho perso la testa, ho chiuso tutto, ho messo il materasso con il letto davanti alla cella e ho attaccato la corda in bagno dicendo che se entrava qualcuno facevo saltare le bombole del gas. Luciano mi ha visto dallo spioncino del bagno ed ha chiamato subito aiuto sfondando la porta, è venuto su l’ispettore con un brigadiere e mi hanno messo in cella assieme a Luciano. Ora la volontà, da parte mia, di cambiare vita c’è, chiedo solo tranquillità, fiducia, serenità, e stare vicino ai miei genitori. Io sono un ragazzo tranquillo, sensibile, avrò tanti difetti ma non prendo in giro nessuno perché, alla fine, chi si prende in giro è solo Marco, infatti ho fatto del male solo a me stesso, non ho mai fatto del male a nessuno, io posso fare dieci anni di carcere, dieci anni di comunità, ma se non decido io di cambiare vita nessuno mi può insegnare a farlo, questo dovete capirlo!
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