Il mio miglior amico di galera, il telefono

Tanti detenuti stranieri attraverso le telefonate vedono, o meglio “sentono” crescere i figli, nascere i nipoti, cambiare le loro famiglie

 

di Mohamed Madouri, settembre 2006

 

Ricordo ancora la mia prima telefonata da detenuto. È stato solo dopo un anno e sei mesi di tentativi, tra richieste alla matricola, all’educatrice e al Consolato del mio Paese, che mi hanno autorizzato a telefonare. Era un venerdì del mese di ottobre del 1999, una giornata molto importante per me. La mattina mi sono fatto la barba e la doccia, e poi sono rimasto in cella a pensare a cosa dovevo dire alla mia famiglia. Alle due del pomeriggio mi sono presentato davanti al telefono mettendomi addosso un bel completo da festa e tutto profumato (mi mancava solo la cravatta, ma quella in carcere è vietata…).

L’agente che faceva servizio quel giorno al piano dove mi trovavo, nel carcere di Vicenza, era uno juventino come me, aveva la mia stessa età e con lui  parlavo spesso di calcio. Ricordo che si mise a ridere e mi disse: “Madouri, dove vai vestito così da matrimonio?”. “Vado a parlare con mia madre”, risposi io. “Da quanto tempo non parli con i tuoi?”. “Da un anno e mezzo”. “Accidenti!”, era meravigliato pure lui di questa attesa assurda che avevo dovuto sopportare.

Rimasi qualche minuto vicino al telefono ad aspettare, ero agitato e disorientato. Addirittura avevo paura di quell’apparecchio. Suona il telefono, in linea c’è mia madre, le dico solo: “Ciao mamma, sono io Mohamed”. Mia madre è come paralizzata, pure a me è venuto un nodo alla gola. Allontano per qualche attimo il telefono, e davanti al suo ufficio vedo l’agente che m’incoraggia con i gesti. Faccio un respiro profondo, avvicino l’apparecchio all’orecchio e finalmente mi metto a parlare con mia madre,  ci facciamo un sacco di domande, i minuti concessi per le telefonate allora erano solo sei e sono finiti subito.

Tornai in cella con una gioia immensa perché nelle mie orecchie risuonava ancora la voce di mia madre, ma anche con un gran dolore nel petto. Quel giorno capii la gravità della situazione nella quale mi sono cacciato  e il dolore che ho causato alla mia famiglia. Da quel giorno il telefono è diventato il mio miglior amico. Anche se più di una volta mi ha fatto brutte sorprese.

Poi, piano piano mi sono sciolto nel parlare con la mia famiglia, parlo con tutti senza difficoltà. Tranne che con mio padre: ogni venerdì quando suonava il telefono a casa mia c’era sempre mio padre, insieme a mia madre e ai miei fratelli, lui era ogni volta lì vicino. Appena parlavo con mia madre le chiedevo subito di farmi parlare con lui, e come ogni volta io gli dicevo: “Ciao papà” e lui mi rispondeva con un ciao e poi rimetteva il telefono nelle mani di mia madre o di mio fratello, s’emozionava e si metteva a piangere. Lui ora non c’è più.

A distanza di anni a casa mia mi sono nati quattro nipoti, io li ho conosciuti tramite il telefono. All’inizio, quando avevano pochi mesi, li sentivo piangere o gridare mentre io parlavo con mia madre, allora ero sempre più curioso e mi chiedevo: come sono fatti questi bambini? Sarà facile per me un giorno conoscerli e chiacchierare con loro tranquillamente? Mi pongo ancora spesso queste domande, anche perché qualche settimana fa, mentre parlavo con mio fratello, lui ha chiamato suo figlio, il più piccolo dei miei nipoti, e io sentivo che gli diceva: “Vieni a parlare con lo zio”. Ma lui ha risposto: “Quale zio, quello che non viene mai?”.    

Oggi, dopo anni e anni di telefonate, e l’ottimo rapporto di amicizia che ho costruito con il telefono, il giorno della telefonata è sempre un giorno speciale come il giorno della prima telefonata, ma dentro di me è rimasta la paura che il mio miglior amico mi dia un’altra brutta notizia.