Un sogno che diventa un incubo

 

di Mohamed Madouri, ottobre 2006

 

Io ho iniziato a sognare l’Italia quando ero ancora molto piccolo e vedevo mio fratello maggiore e molti dei suoi amici emigrare per fare lavori stagionali. Venivano in Italia per qualche mese e tornavano con un sacco di soldi. Negli anni Ottanta era tutto molto più facile, gli immigrati in Italia non erano ancora molti e quelli che arrivavano nella maggior parte dei casi riuscivano a trovare lavoro. Negli anni Novanta era già tutto cambiato, ma io non lo sapevo. Era quasi impossibile avere il visto e bisognava allora affidarsi a gente senza scrupoli che organizzava viaggi con mezzi precari e favoriva l’ingresso illecito nel vostro Paese.

Sono arrivato qui all’inizio del ‘94 quando gli sbarchi a Lampedusa non erano ancora all’ordine del giorno. Quello era il viaggio della mia vita. Avevo mille idee, mille sogni, tanti desideri. E sognavo sempre che accadesse qualcosa di bello, quello che stavo aspettando, anche se non sapevo bene cosa io stessi aspettando! Dopo i primi controlli e gli accertamenti della polizia sono riuscito a raggiungere i miei amici che mi avevano fatto sapere di essersi stabilizzati al nord. Ingenuamente pensavo stessero facendo delle vite normali, che avessero trovato una casa e che lavorassero onestamente. Ma appena arrivato, mi ci volle poco a capire che non era proprio così. Loro conducevano una vita fatta di droga, case e fabbriche abbandonate e polizia e fughe e paura… Un sogno s’infranse subito alla vista di quella realtà, che non riuscivo ad accettare: io avevo ben altre intenzioni. Volevo trovare un lavoro e condurre una vita onesta, anche se da irregolare.

Purtroppo però non era facile trovare lavoro per uno che arrivava qui in quegli anni e nelle mie condizioni. Tutto il mio entusiasmo e la mia smania di lavorare sparirono come un fuoco di paglia. Passate le grandi fiamme che emanavano calore, luce, energia, tutto svanì e mi ritrovai costretto a recuperare soldi per mangiare, per vivere. In quel momento la scelta più facile era quella di seguire i miei paesani. Mi diedero in mano la merce, mi indirizzarono nelle zone giuste e cominciai a spacciare. Le prime parole che ho imparato erano quelle che mi servivano per “lavorare”: Serve qualcosa? Quanto vuoi? Avevo anche imparato a distinguere i soldi buoni da quelli falsi. A riconoscere polizia e carabinieri in borghese.

Mi ritrovai ad abitare in una fabbrica abbandonata, vecchia e fatiscente. Dopo pochi giorni dal mio arrivo in Italia il mio sogno era diventato un incubo: vivevo come un topo, giocando a nascondino con polizia e carabinieri. Dormivo con i pantaloni addosso, doppie calze e anche il giubbotto, e non solo per ripararmi, ma anche per essere pronto all’arrivo degli sbirri. Quante volte mi sono ritrovato a scappare con le scarpe in mano, con un freddo cane, dai carabinieri che poi bruciavano i nostri miseri materassi e le nostre coperte! Per alleviare quelle sofferenze, dimenticare quelle condizioni in cui ci trovavamo e per poter dormire fumavano spinelli. Qualcun altro tirava eroina o cocaina a lume di candela, perché lì si viveva senza luce e senza acqua.

I primi tempi mi vergognavo di entrare nei bar, nei ristoranti o di starmene in mezzo alla gente perché mi rendevo conto che le condizioni in cui mi trovavo facevano schifo. All’inizio mi ripetevo che non lo avrei fatto per molto tempo, ero ancora intenzionato a trovare lavoro. Avrei continuato a spacciare solo finché le cose non fossero cambiate in meglio. Ma è sempre così, quando aspetti non arriva niente! Ora penso che, forse, se una volta arrivato in Italia avessi trovato una realtà diversa da quella, oggi non sarei qui, in carcere, a scontare più di venti anni di condanna. Forse, se le opportunità fossero state altre, forse…