Segnato per tutta la vita

 

Una vendetta autodistruttiva. Storia di uno sfregio, di armi usate con troppa facilità e di una vendetta che ha portato solo tanta galera

 

di Mohamed Ali Madouri, novembre 2005

 

Sono stati così tanti in questi ultimi tempi gli episodi di autolesionismo di cui sono stati protagonisti miei connazionali, che abbiamo deciso di discuterne anche in redazione. Essendo l’unico maghrebino presente, e sapendo che spesso sono ragazzi dei paesi del Maghreb a tagliarsi, ma anche a tagliare gli altri, mi sono sentito chiamato in causa e ho deciso di raccontare la mia esperienza personale. Porto una vistosa ferita in viso, provocatami da un mio connazionale, dopo un battibecco che avevamo avuto alla presenza di tanti altri amici tunisini e che era finito a pugni. L’avevo offeso, pare, e soprattutto non avevo tenuto conto che lui aveva una vasta carriera “criminale”. Dopo quel fatto, dopo che io l’avevo, secondo lui, screditato davanti a tutti, decise di non farmela passare liscia, e infatti mi fece pagare un prezzo fra i più alti che esistano: rovinarmi il viso… Dopo anni e anni di silenzio, trovo con fatica il coraggio di raccontare quello che mi è capitato.

Ricordo ancora quella sera buia e freddissima, in un vicolo del centro di Modena, quando un branco di miei connazionali armati di coltelli e taglierini mi aveva accerchiato ed aggredito, ferendomi ad una coscia, ad un braccio e lasciandomi come “regalo” un bel taglio in faccia che arriva fino al collo. Poi erano fuggiti, abbandonandomi come un cane, svenuto in un lago di sangue. Mi svegliai il giorno dopo con un gran mal di testa provocato dall’anestesia che stava piano piano svanendo. Mi trovai in mutande, sdraiato su un letto dell’ospedale. Attorno a me i miei amici con facce da funerale che mi guardavano con aria penosa, e che mi chiedevano insistentemente come mi sentissi.

Quello che era successo il giorno prima mi sembrava solo un brutto sogno, che al mio risveglio era però diventato una triste realtà. Spaventato e pessimista avevo palpato il mio viso, trovando tutta la parte sinistra, dalla guancia e fino al collo, coperta di cerotti. In quel momento avrei voluto riaddormentarmi per sempre: non riesco neppure a descrivere il dolore e la rabbia che provai. Non avrei mai immaginato che una cosa simile potesse succedere proprio a me: non sono un tipo litigioso, né tantomeno violento, quindi non ero preparato a qualcosa del genere. Per di più, non meritavo una tale punizione, non meritavo un trattamento del genere, solo per un trascurabile e banale litigio.

Il mio aggressore era chiamato “L’uomo dal coltello facile…” e quel giorno compresi bene il perché. Mi aveva marchiato, mi aveva “sporcato” la faccia, mi voleva così. Aveva voluto cambiare la mia vita, e purtroppo ci era riuscito benissimo. Da quel giorno smisi di vivere, di volermi bene. Mi facevo schifo, non riuscivo a sopportare quella dannata “novità”. Non riuscivo a digerire l’idea che un essere umano come me mi aveva trasformato in un’altra persona, una persona che io non volevo ed anzi detestavo. Io volevo il mio bel viso pulito, così come mia madre mi aveva fatto. Per un lungo periodo piansi di continuo: rifiutavo persino di mostrarmi in pubblico. Fino a pochi mesi prima mi esibivo ben volentieri per attirare l’attenzione di una ragazza che mi piaceva… fino a pochi mesi prima mi piaceva essere al centro dell’attenzione, e tutto questo improvvisamente era finito…

Passarono i giorni e passarono i mesi, fino a quando tolsi finalmente i cerotti. La ferita guarì ma rimase una grossa cicatrice. Ogni giorno che passava, ogni volta che mi guardavo allo specchio, il mio odio e la mia rabbia crescevano. Mi accanii nei confronti del mio feritore, ed iniziai a bere tantissimo. Prima del ferimento mi limitavo a qualche birra, mentre dopo, con il mio viso deturpato, cominciai a scolarmi intere bottiglie di alcolici e il giorno in cui bere non bastò più ad intorpidirmi la mente, passai a sniffare cocaina. Fino ad allora i miei amici mi erano rimasti vicini, mi avevano sostenuto e mi avevano aiutato per mesi, ma quando videro che ero completamente cambiato, che non mi stava mai bene niente e che moralmente ero sempre a terra, parlarono tra di loro e mi proposero di tornare in patria. Si offrirono di pagarmi tutte le spese per fare ritorno in Tunisia, e cercarono di convincermi che era la migliore medicina per uscire da quel tunnel di tristezza e malinconia che si era oramai impadronito di me.

 

Avevo una maledetta voglia di fargli assaporare il male che mi aveva fatto

 

All’inizio fui assolutamente contrario alla loro idea: nella mia mente era impensabile poter incontrare i miei genitori e i miei fratelli con questa ferita in faccia, ma dopo giorni e giorni di riflessione decisi di dare ascolto ai miei amici. Ero molto stanco e forse un periodo a casa mi avrebbe veramente ritemprato. I miei connazionali mi accompagnarono al porto di Genova. Dopo esserci salutati salii sulla nave, e quando salpammo scoppiai in lacrime: ero già pentito della scelta fatta. Quando arrivai in Tunisia, trovai mio padre e mio fratello ad attendermi al porto. Li abbracciai, li salutai con un groppo in gola e andammo a casa. Mia madre e mia sorella scoppiarono a piangere, iniziarono a guardare ed a tastare la ferita che mi ero portato dall’Italia, e ancora oggi non so se le loro erano lacrime di gioia per il ritorno, o se di dolore per come ero ridotto a causa dello sfregio al viso. Mio fratello, invece, rimase impietrito. Mi fissava senza pronunciare una parola, ma il suo silenzio mi diceva tante cose, mi diceva che avevo la faccia rovinata e che lui non aveva potuto fare nulla per difendermi. In quel momento anch’io scoppiai in lacrime, e piansi lungamente, almeno per liberare i dolori immagazzinati nel mio cuore.

Il ritorno a casa fu comunque salutare: per un breve periodo tornai “normale”, proprio come ero prima, così come desideravo e come le altre persone mi conoscevano. Ma quella normalità non durò molto, e ripresi nuovamente a bere, a fare la vita spericolata e a creare problemi ai miei genitori e alla mia famiglia. La vera realtà è che, ogni volta che mi mettevo davanti allo specchio, vedevo il mio viso inguardabile e la rabbia saliva, saliva fino a farmi sentire “indegno”. E in quello specchio vedevo trasparire anche il viso del mio aggressore, e non sentivo pace. Nemmeno la lontananza era riuscita a togliermelo dalla mente! Nei miei pensieri c’era solo lui, mi si presentava anche nei sogni e succedeva tutto al di fuori della mia volontà.

Dopo nove mesi trascorsi nel mio paese, tornai in Italia e mi recai direttamente a Modena. Trovai pochi amici, ma quelli buoni, così come trovai anche i nemici. “L’uomo dal coltello facile” era preoccupato dal mio ritorno. Passarono appena due settimane che si fece vivo, solo per farmi sapere che dovevo abbandonare Modena altrimenti finiva male. Mi aspettavo da lui un altro atteggiamento: pensavo che mi chiedesse perdono o che cercasse di rimediare, anche se da rimediare c’era ben poco. Avevo solo ventidue anni ma il mio carattere impulsivo mi diceva di farla finita, di chiudere quella storia una volta per tutte. Sapevo che il mio aggressore non era una persona di pace, e che non mi avrebbe mai chiesto scusa per non sentirsi inferiore o perdente. Ero consapevole del fatto che, prima o poi, tra noi due sarebbe avvenuto uno scontro. Ed io avvertivo una maledetta voglia di fargli assaporare il male che mi aveva fatto. Desideravo dargli una lezione, una sonora lezione che ad esempio gli impedisse per sempre di tenere un coltello in mano.

Una notte in cui ero in paranoia e fuori di me per aver sniffato parecchia cocaina, “sentii” nel mio cervello l’istinto irrefrenabile e diabolico di andare alla roulotte dove il mio aggressore abitava assieme al fratello. Volevo mettere fine a questa battaglia che durava da un anno e sei mesi, ma presentarmi all’improvviso fu una scelta sbagliata. In un batter d’occhio si scatenò l’inferno ed entrarono in scena i coltelli, ma seppur con qualche ferita ne uscii vivo. La mattina successiva seppi però che il mio nemico era in gravi condizioni: si trovava in coma. Al pomeriggio poi ebbi la notizia della sua morte. Fu come se anche il mio cuore avesse smesso di battere, ed il mio cervello di pensare. Mi sentii impazzire, avvilito, incapace di affrontare quella tragedia.

Trascorsi qualche giorno vagando da una città all’altra, accompagnato da un amico, e quando ebbi raccolto l’energia e ritrovato il senso di responsabilità, chiesi al mio accompagnatore di lasciarmi continuare da solo. Andai avanti per la mia strada, in compagnia del terrore e della tristezza. Vagabondai per un anno dopodiché, nel 1998, fui arrestato e condannato per omicidio volontario. Alla fine abbiamo pagato entrambi. Lui con la propria vita, ed io con il carcere e la condanna della faccia deturpata, che si accompagna ai pregiudizi delle persone, e al peso di aver ucciso un uomo. Senza considerare il male e le sofferenze che abbiamo causato alle nostre famiglie, agli amici e alla gente che ci voleva bene…

                                            

A spingermi a raccontare questa storia è stato un motivo in particolare. La mia voglia di lanciare un messaggio ai miei connazionali, per dire loro che il viso è una cosa sacra, intoccabile. È un dono prezioso che Dio ci ha fatto, e non è accettabile rovinarlo per vendicare cose futili, perché si tratta di segni che rimangono per tutta la vita. Per questo voglio invitare chi è capace di far del male agli altri senza troppo rifletterci a fare un passo indietro. A chi invece è stato ferito chiedo di perdonare, perché si può tornare a sorridere come una volta solo se non si pensa in alcun modo a vendicarsi.

La strada della vendetta non porta a nulla di buono.