Padri in viaggio, padri in ospedale, padri all’estero

 

storie di padri detenuti e di pietose bugie raccontate ai figli "Non avevo mai provato a spiegare ai miei figli perché il loro padre non aveva ferie, perché non poteva andare a casa, perché non poteva accompagnarli a scuola"

 

Di Francesco Larosa, luglio 2001

 

Sono nato in un grosso centro agricolo della Calabria, la cui economia è basata prevalentemente sulla coltivazione degli agrumi, quindi il lavoro c’era solo alcuni mesi all’anno. Come tanti miei compaesani, nel lontano 1969, all’età di 15 anni, dovetti immigrare, le tappe di questo viaggio per "fare fortuna" furono il nord Italia, poi la Francia e la Germania.

Poiché provenivo da una famiglia numerosa, ben 10 figli, con una situazione economica quindi molto disagiata, lavorai sodo per dare il mio contributo, e questo durò fino al 1974 quando partii per il servizio militare nella provincia di Pordenone. Da lì a poco conobbi quella che per me è stata la donna della mia vita, che ho sposato nel 1977, e con lei mi sono sistemato in quella zona. In quei primi anni di matrimonio sono nati tre figli, Attilio, Alessandro e Giusy.

Facevo l’autotrasportatore di mobili per l’Italia e in Europa. A dire il vero questo lavoro lo facevo volentieri prima di avere una famiglia, ma poi mi costava fatica stare lontano da mia moglie e dai miei bambini. Quando giungeva l’ora della partenza, i figli si aggrappavano a me, perché non accettavano di vedere il loro padre partire con il camion, e stare lontano da loro a volte anche per 15 giorni di seguito. Per questo motivo, alla fine del 1982, decisi di smettere di viaggiare con il camion.

Fu così che ritornai al paese natale, mettendomi a lavorare con i miei fratelli che avevano una piccola impresa di intonaci. Ero soddisfatto sia per il lavoro, sia per il fatto di essere accanto a mia moglie e ai miei figli, e finalmente la sera anch’io potevo andare a casa e stare con loro, giocare e portarli a spasso come facevano e fanno tanti papà. Tutto questo durò per poco tempo, perché, dopo circa otto mesi, fui arrestato per detenzione di un’arma, e mentre ero in custodia cautelare, in carcere, mi sono sopraggiunti altri procedimenti, uno dei quali è questo reato per cui sto attualmente scontando la pena.

I bambini, non vedendomi tornare a casa, chiedevano alla mamma dov’ero, e lei gli rispondeva: "Papà ha ripreso a lavorare con il camion, e non si sa quando rientra".

Pensai al momento di non farmeli portare al colloquio, perché non volevo che subissero un trauma, e soprattutto speravo che la cosa si risolvesse in breve tempo. Poi però il desiderio di vederli era troppo forte, e così decisi di incontrarli in carcere. La prima volta l’emozione e l’angoscia l’hanno fatta da padroni: i bambini, presi dalla curiosità di quello che si trovavano intorno, mi tartassavano di domande, io cercavo di persuaderli che in quel luogo ci lavoravo, ma nei loro occhi si leggeva un forte dubbio, e a un certo punto il più piccolo mi chiese: "Papà, come mai c’è la polizia?". A quella domanda restai senza parole, poi gli risposi con qualche frase senza senso, che non ricordo neppure più.

Quella volta restai dentro per quattro anni e mezzo, intanto Attilio aveva cominciato il suo primo anno di scuola, Alessandro e Giusy andavano all’asilo, e non accettavano il fatto che non fossi lì ad accompagnarli, e ogni volta che mi venivano a trovare, la domanda era sempre la stessa: "Papà, perché non vieni tu ad accompagnarci, come fanno gli altri papà?". A sentire quella frase, l’angoscia dentro di me si faceva sempre più grande, ero stufo di inventare delle scuse, anche perché notavo in loro una certa diffidenza.

 

Finalmente nel novembre del 1987 riacquistai la libertà per scadenza dei termini di custodia cautelare, in seguito la sentenza venne annullata dalla Suprema Corte di Cassazione.

Ricominciai a godermi la famiglia, i figli, ripresi il lavoro in un cantiere edile. Dopo il carcere, i bambini e io eravamo affamati di affetto. era qualcosa di indescrivibile poterli abbracciare, poter stare nuovamente insieme io, loro, e mia moglie, che durante la mia carcerazione aveva fatto un po’ a tutti noi sia da madre, che da padre.

Per dieci anni ho continuato a vivere e lavorare in serenità. Durante la mia libertà sono successi dei lieti eventi nella famiglia, come la nascita del quarto figlio nel ‘91, che io e mia moglie avevamo voluto un po’ anche per dimenticare tutte le sofferenze vissute in quegli anni.

Nel frattempo la lentissima giustizia italiana faceva il suo corso, riprendendo il processo che era stato annullato per vizio di forma, e nel 1997 fu emessa la sentenza definitiva: 21 anni di carcere. Per me, mia moglie e i miei figli è arrivata, così, un’altra doccia fredda, che ci ha lasciati tutti impietriti. Nel gennaio del 1998 sono stato così arrestato per la terza volta, naturalmente sempre per lo stesso caso, in presenza di mia moglie e dei miei figli, che intanto erano cresciuti, Alessandro in particolare non era più il bambino che voleva sapere tutto e che anni prima mi tempestava di domande tipo: che lavoro fai qui? cosa mangi? e le ferie non te le danno?

Non avevo mai provato a spiegare ai miei figli perché il loro padre non aveva ferie, perché non poteva andare a casa, perché non poteva accompagnarli a scuola. Così facendo intendevo tutelarli, non volevo che conoscessero la brutta realtà del carcere, pensavo che, quando sarebbero stati più grandi, gli avrei spiegato tutto.

 

I miei figli ora sapevano che ero in carcere ed erano loro a dire al fratellino più piccolo le stesse amorose bugie che io avevo raccontato loro per anni

Rivedere nuovamente i figli al colloquio è stata dura, ora le domande, che 11 anni prima faceva Alessandro, me le faceva Pasqualino. I più grandi già sapevano ed anche loro dicevano a Pasqualino le stesse amorose bugie che io avevo raccontato loro per anni. Mentre ero fuori, quei bambini che venivano al colloquio erano diventati ragazzi, uomini, avevano i loro primi amori, Alessandro e Giusy erano già fidanzati. Uno degli avvenimenti della vita che un genitore ed un figlio ricordano con infinito affetto è il giorno del matrimonio. Quando mia figlia Giusy si è sposata, nel luglio del ‘99, io mi trovavo detenuto a Potenza. Ho inoltrato istanza di permesso per potermi recare ad accompagnare mia figlia sull’altare, e non mi è stato concesso, io certo ho sofferto parecchio, ma lei molto più di me. Nel frattempo, su mia richiesta, sono stato trasferito qui a Padova. Quando poi si è sposato anche mio figlio Alessandro, ho espresso il desiderio di poter partecipare, anche con scorta, al matrimonio, e questa volta ho potuto essere insieme a tutta la mia famiglia alla cerimonia nuziale di mio figlio.

La gioia di quel giorno è stata per me e per la famiglia una cosa indescrivibile. Mia figlia Giusy era la più commossa, tanto che è arrivata a dire: "Papà io questa fortuna di averti vicino il giorno del mio matrimonio non l’ho avuta". Considerate cosa ha voluto dire per me quel momento.

 

Il più grosso problema adesso è il mio piccolo Pasqualino. Mia moglie con Pasqualino si era trasferita nella provincia di Pordenone, dai suoi genitori, e si era messa a lavorare in una fabbrica del luogo. Gli altri figli oramai hanno la loro famiglia e si sono stabiliti in Calabria.

A colloquio, mio figlio più piccolo mi diceva di sentire la mancanza dei suoi fratelli, dei suoi amici lasciati in Calabria, dei suoi compagni di scuola. Per lui era stato molto traumatico lasciare tutti questi affetti, e venire al nord con la mamma. In pratica ha messo alle strette me e mia moglie con quel discorso da bambino, con la mente di un ometto; "Papà, posso dirti una cosa? però non voglio che ti dispiaccia: se mi volete bene, riportatemi in Calabria, dai miei fratelli, dai miei amici". E così, di comune accordo con mia moglie, di fronte a quel figlio che stava veramente male abbiamo deciso che lei se ne torni in Calabria con Pasqualino, rinunciando a tanti progetti, primo fra tutti, quello affettivo.

Di fatto, mi sono venuti a mancare i colloqui, la cosa più importante per un detenuto, mantenere un saldo rapporto con la famiglia, specie quando questa è costituita da figli ancora piccoli. Una nota positiva qui a Padova è stata la festa del Papà, organizzata in modo da fare passare cinque ore in compagnia della moglie e dei figli al di sotto dei 10 anni. Quella è stata una bella giornata davvero, c’erano molti altri bambini, erano presenti anche alcuni animatori esterni. I bambini tra loro hanno organizzato una partita a calcetto. Pasqualino ha voluto occupare il suo ruolo che è quello dell’attaccante, e per ogni rete che metteva a segno sprizzava di felicità, rivolgendo lo sguardo verso di me e sua madre.

Il fatto che stanno in Calabria ha diradato molto i colloqui e mia moglie ha cominciato a dirmi che il bambino mi nominava sempre, sentiva la mancanza del padre. Alla fine ha dovuto portarlo da uno psicologo, che ha riscontrato che il bambino è affetto da enuresi notturna e da disturbi comportamentali.

Quello che ho perso nei confronti dei miei figli è qualche cosa di immenso: non ho potuto e non posso tuttora star loro vicino durante la loro crescita, la loro vita. A loro è mancato il padre, a me sono mancati quegli attimi magici della vita di famiglia, mia moglie, i miei figli, ed ora i miei nipotini. Quello che vorrei almeno far capire è che la pena del carcere, meritata o meno che sia, non è solo la privazione della libertà, ma anche la privazione degli affetti.