Quattordici anni di attesa… poi, "finalmente", la condanna!

 

Questa è una storia raccolta in carcere, ma non è neppure questa una storia "fuori dal normale", perché i tempi biblici della giustizia, qui raccontati, sono purtroppo spesso la regola, e non l’eccezione nel nostro paese

 

Di Francesco Larosa, gennaio 2001

 

La mia vicenda giudiziaria ha inizio nel 1983, quando vengo accusato, in base alle dichiarazioni di un "pentito", di vari reati. Nello stesso procedimento vengono inquisiti anche esponenti della magistratura e uomini politici, ma le accuse del "collaboratore" sono considerate attendibili soltanto quando riguardano il sottoscritto, mentre quelle rivolte agli indagati "eccellenti" sono bollate come frutto di megalomania.

In definitiva, siamo stati in pochi a finire in carcere: io ci sono rimasto fino al novembre del 1987 quando, dopo due processi, si esaurì il periodo di custodia cautelare e venni rimesso in libertà. Successivamente, e cioè nel 1988, la Cassazione annulla i due procedimenti per vizi di forma, rimandando il procedimento nuovamente al primo grado.

Intanto, avevo già trascorso quattro anni di carcere nei più duri penitenziari d’Italia, tra questi, quello di Trani nella Sezione Speciale, già classificato, quindi, tra i "mafiosi". Tornato in libertà, lavoro duramente per mandare avanti la famiglia, con tre figli da crescere. Sconto anche due anni di libertà vigilata, senza trasgredire a nessuna delle prescrizioni che mi avevano imposto, tanto che nel 1992 ottengo la riabilitazione e torno ad essere, a tutti gli effetti, un cittadino libero.

Ma, da lì a poco, ricomincia il processo, che la Cassazione aveva rimesso in primo grado; si conclude nel 1994 e mi ritrovo condannato a 21 anni di carcere: la stessa Corte emette, al termine della sentenza, un ordine di cattura perché ritiene che ci sia pericolo di fuga e quindi dispone l’immediata traduzione in carcere. Come ne vengo al corrente, mi presento da solo davanti alla questura del mio paese. Dopo qualche mese di detenzione vengo rimesso in libertà per la seconda volta, a causa di una nuova e definitiva decorrenza dei termini di carcerazione preventiva, il cui tetto massimo è di quattro anni.

Nel dicembre 1994 sono di nuovo a casa, dove riprendo una vita normale, tra lavoro e famiglia. La Legge, intanto, segue il suo corso: nel 1996 il processo di appello riconferma la condanna e, l’anno successivo, la Cassazione la rende definitiva.

Dall’inizio della vicenda sono trascorsi ben quattordici anni, ho avuto sei processi, ho fatto quattro anni di custodia cautelare, di cui anche un prolungato periodo in sezioni ad Alta Sicurezza. Alla fine, pur assolto dai reati associativi di tipo mafioso, mi ritrovo con ulteriori 21 anni di carcerazione da scontare. Perché la condanna, se doveva arrivare, non è stata decisa prima?

Mentre ero sotto processo ho vissuto ben dieci anni da persona libera, costruendomi una vita del tutto normale e, soprattutto, onesta, dedicandomi al lavoro ed alla famiglia, ed ora questa pena detentiva mi ha distrutto l’esistenza e lo stesso ha fatto alla mia famiglia.

Dopo il ritorno in carcere, gli organi di giustizia e polizia mi considerano un elemento di alta pericolosità sociale, anche se, nei dieci anni trascorsi in libertà, nessuno era venuto a contestarmi un comportamento sbagliato".

 

I rischi della giustizia "a scoppio ritardato"

Questa storia è simile a quella di tanti altri che, accusati di reati più o meno gravi, sono sottoposti a processi interminabili e dall’esito alterno, fino a quando non arriva la condanna definitiva, magari dopo vent’anni di traversie.

Questi casi sollevano diverse perplessità sull’uso adeguato della carcerazione, in riferimento al fine risocializzante che le attribuisce la Costituzione. Quando l’attesa della sentenza si protrae negli anni, a volte nei decenni, è logico che la persona imputata nel frattempo torni libera e abbia modo di costruirsi una vita regolare… se ha intenzione di farlo.

La condanna, quindi, determina conseguenze opposte a quelle definite nei principi che la legittimano: invece di recuperare alla vita sociale, sottrae la persona alle relazioni, già corrette ed adeguate, che intrattiene. Forse, si tratta di una modalità da rivedere, prendendo in considerazione la possibilità che il "risarcimento" sia effettuato diversamente, almeno per coloro che non rappresentano più un pericolo. Persone che sono in grado di dare un contributo costruttivo alla società, fuori dal carcere, anche volendo considerare solo l’aspetto economico della questione.

Un problema analogo si verifica spesso per gli ex tossicodipendenti: persone inserite in programmi terapeutici presso comunità di recupero, sono costrette a interromperli per andare in carcere a scontare pene, relative a reati commessi molti anni prima e con il concreto rischio di vanificare i percorsi positivi intrapresi, magari tra mille difficoltà.

Di fronte a situazioni del genere, perché non pensare a una detenzione usata solo in mancanza di alternative, ad esempio quando c’è il rischio che la persona commetta nuovi reati?

Quelli già commessi, purtroppo non potranno essere rimediati, mentre potrebbero essere parzialmente "riequilibrati", magari con una qualche forma di impegno a favore delle vittime, o con prestazione di lavoro di pubblica utilità.

La vicenda presenta anche un altro aspetto paradossale: una persona è rimasta tre anni in una sezione di Alta Sicurezza e poi si è accertato che non aveva titolo per rimanervi, essendo stata assolta dalle imputazioni per reati di associazione a carattere mafioso. L’uso preventivo della carcerazione costituisce già un provvedimento da adottare con particolare prudenza, perché la persona potrebbe poi essere assolta (circa metà dei processi si concludono con assoluzioni), ma succede ben di peggio: gli imputati possono finire in sezione assieme ai condannati e, se l’imputazione è per reati gravi, queste sono sezioni di Alta Sicurezza, dove spesso le attività sono ridotte al minimo, per ragioni organizzative. A volte poi, e anche questo andrebbe sottolineato, le sezioni ad Alta Sicurezza diventano luoghi in cui c’è il rischio che si coltivino culture criminali, che facilmente possono sedurre chi entra per la prima volta in carcere, soprattutto quando è in custodia cautelare e attraversa un periodo di forte contrapposizione con i giudici.