|
Le difficoltà del trasferimento in patria per scontare la pena
Le vicende di Ilir e Ahmet, due casi emblematici di una questione controversa: loro vorrebbero essere mandati via dall’Italia, e invece sono qui, mentre se ne vanno, espulsi, tanti che vorrebbero restare
Di Ilir Curraj e Ahmet Karaboga, ottobre 2000
Si parla molto, spesso a sproposito, della questione stranieri. Viene presentata di volta in volta in maniera diversa, a seconda di quale obiettivo si propone chi scrive l’articolo, o di quali sono gli orientamenti politici del giornale su cui verrà pubblicato. Noi non possiamo permetterci nessuna casacca politica e d’altronde i problemi e le difficoltà non hanno colore o ideologie, quindi possiamo permetterci di esporre per intero il problema. La questione: ci sono molti detenuti stranieri nelle carceri italiane, condannati in via definitiva, che e desiderano ardentemente di poter scontare la pena nel proprio paese. Molti di questi ragazzi, (perché vista l’età media dei detenuti stranieri, in Italia sono per lo più persone molto giovani), appartengono a paesi esterni all’Unione Europea, come Marocco, Tunisia, Albania, Croazia, Turchia, e molti altri ancora. Con questi paesi ci sono dei trattati bilaterali in materia di espulsione. Se invece parliamo di trasferimento dei detenuti per scontare la pena nel proprio paese, il discorso si complica molto. Questa richiesta può essere avanzata dal paese d’origine del condannato, oltre che dal condannato stesso. Attualmente per le difficoltà di attuazione, il trasferimento è una remota possibilità, ed invece dovrebbe essere un diritto sacrosanto per tutti. La convenzione di Strasburgo regola questa delicata materia.
Per portare alcuni esempi concreti, parleremo di due casi: il primo riguarda un cittadino albanese, Ilir Curraj, arrestato nel ‘97 e condannato a 15 anni di detenzione con sentenza definitiva.
"Il mio è uno di quei casi che possono rientrare nella legge per il trasferimento. È mia intenzione presentare la richiesta di trasferimento in Albania e scontare lì la pena. Mi dicono che da un punto di vista legale è possibile, ma il tempo necessario perché questa procedura sia avviata è molto lungo: passano anni, tanto che spesso si rinuncia preventivamente a chiederlo, come hanno fatto molti miei connazionali. So che ci sono ragazzi stranieri che preferiscono scontare la pena qui in Italia per motivi diversi. Poi ci sono quelli, come me, che chiedono di poter tornare in patria. Il mio trasferimento non toglierebbe nulla all’efficacia dell’esecuzione della sentenza emessa in Italia nei miei confronti. Il vantaggio per me ed i miei familiari sarebbe incalcolabile. Pensate che per venire a fare due ore di colloquio, qua in Italia, ci vogliono quattro giorni di viaggio, e prendere il visto di ingresso in Italia. Effettuare un colloquio con un familiare detenuto in un altro Stato non è affatto facile, e spesso risulta impossibile. Se si tiene poi conto anche dell’aspetto finanziario, la situazione diventa catastrofica: un viaggio da Valona a Padova costa, compreso il traghetto, il pernottamento e il mangiare, circa un milione a testa; mettere assieme un milione in Albania è impresa molto ardua. Ci sono familiari che per venire trovare il proprio figlio, incarcerato in Italia, si sono dovuti vendere la casa. Adesso sto facendo attivare il mio legale ed i miei familiari affinché sia possibile quanto prima questo trasferimento. La prassi che seguo è quella prevista dai trattati tra il mio paese e l’Italia".
Il secondo caso è quello di un cittadino turco Ahmet Karaboga, arrestato nel ‘94 e condannato a 14 anni di reclusione per il reato di traffico internazionale di droga.
"Appena la mia condanna è diventata definitiva, la prima cosa che ho pensato è che finalmente potevo presentare la richiesta di trasferimento in Turchia. Di questa possibilità e delle procedure ne avevo sentito parlare da miei connazionali, e mi dicevano che la prassi poteva durare anni. Non avevo niente da perdere, quindi nel 1996 presentai la richiesta di trasferimento al Ministero della Giustizia. In pratica è una questione di calcoli, io con la galera che ho scontato qui in Italia, sono nei termini sia in Italia che in Turchia per beneficiare delle misure alternative al carcere. Qui in Italia è un problema per chi non è italiano prendere benefici, in quanto non si hanno riferimenti sul territorio. Mentre in Turchia non avrei nessuno di questi problemi. Inoltre, anche se dovessi restare ancora qualche tempo in carcere, avrei la possibilità di fare i colloqui regolarmente, mentre qui mi è stato impossibile vedere la mia famiglia al completo per sei anni; ho potuto vedere solo tre volte mio padre, dato che i costi per il viaggio ed il soggiorno sono troppo alti per portare tutta la famiglia. Tenete conto, inoltre, che questa grande spesa la si affronta per poi fare solo due ore di colloquio. Sono ormai più di quattro anni che ho presentato istanza, tutte le procedure burocratiche sono state espletate. La mia pena italiana è stata convertita in una pena turca, in pratica i 14 anni presi qui, il tribunale penale di Ankara li ha trasformati in 20 anni di carcere turco… i miei connazionali sono molto generosi, nel distribuire anni, però sarei a casa mia e così potrei godere di tutti quei vantaggi che ciò mi può offrire".
|
|