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Ci sono anche le famiglie dei detenuti stranieri: così lontane, così sole
Di Josep Burgaya, agosto 1999
Era un mese d’aprile di tanti, tanti, troppi anni fa. Una lettera ci arriva e dice: "Famiglia, sto in prigione". Non capiamo niente, che è successo? Perché? Come è stato possibile? Una grande ansia si impadronisce di noi. Piangiamo, piangiamo molto. Cosa dobbiamo fare? Cosa possiamo fare? Quando un membro di una famiglia onesta è arrestato e deve andare in prigione, tutta la famiglia rimane distrutta, nessuno sa come deve muoversi. Ci pare che questo sia uno sbaglio, non può essere che il figlio, il fratello, sia detenuto. Poi però arriva il tempo della riflessione, nel quale si va accettando piano piano la realtà: è quando cominciano le domande interiori. Perché questo membro della nostra famiglia, questo essere che porta lo stesso sangue, che è cresciuto sotto lo stesso tetto, si trova in questa situazione? In cosa abbiamo sbagliato noi, i suoi famigliari? Gli abbiamo dato la comprensione, il calore, l’amore, l’aiuto che forse reclamava gridando e noi non abbiamo sentito? Quale parte di colpa abbiamo nel suo delitto? Con il suo arresto, anche noi padri e fratelli siamo stati condannati. Siamo stati privati della sua compagnia, dei suoi progetti, delle illusioni che formavano la sua vita. La giustizia non ha condannato soltanto un singolo, ma un insieme di persone che soffrono l’angoscia della mancanza di libertà di uno di loro. Quale delitto abbiamo fatto noi per soffrire questa pena? Può darsi l’intolleranza? Può darsi la mancanza d’affetto? Può darsi… Gli anni passano lentamente. Le lettere dall’Italia vanno e vengono. Il fatto nuovo si converte in routine. La famiglia cambia. Nascono nuovi membri che il detenuto non conosce ancora, e ne muoiono altri che lui non vedrà mai più. E in tutto questo patire, che ci guadagna la società che tanto si vuole proteggere? La giustizia, che porta gli occhi coperti, è efficace in questa sua impostazione? Perché un uomo giovane, per trovare il suo posto in questo mondo pazzo, deve pagare tanto caro il suo errore di un giorno? Con la detenzione di nostro figlio e nostro fratello, la società ha punito tutta la famiglia, però in contropartita e come autodifesa ci ha obbligato a pensare di più a noi, a rendere più forti i vincoli di sangue che ci uniscono e che gli errori della vita non riusciranno a spezzare mai. E’ triste e doloroso riconoscere questo, ma la condizione umana necessita a volte di questi episodi traumatici per dare valore a quello che la vita ti ha regalato, e approfondire e radicare i sentimenti più nobili con le persone che ami. Ora, una volta scoperto questo, con molta più forza che mai aspettiamo, tutta la famiglia, il momento ultimo della pena. Tutti desideriamo la libertà di Josep.
Jaume Banyoles, maggio 1999
In Spagna siamo soliti dire "no hay mal que por bien no venga", che tradotto nel mio italiano approssimativo può suonare come "non tutto il male vien per nuocere". E’ vero che ho commesso l’errore più grande della mia vita. E da lì son già più di sei anni che ho dovuto imparare l’italiano, una lingua a me prima sconosciuta, ma che per fortuna assomiglia molto allo spagnolo; che ho dovuto comunicare con la gente ma, sempre per fortuna, c’era qualcuno che parlava abbastanza bene il mio idioma, e così ricordo che furono molte le facilitazioni a mio favore. E a loro, vai a sapere perché, gli piaceva di più parlarmi in spagnolano, una miscela di spagnolo e italiano, che nella loro lingua: questo alla lunga è stato per me uno svantaggio ed è la ragione per cui ancora adesso ho dei seri problemi a esprimermi in italiano. "No hay mal que por bien no venga". Perché questo tempo vissuto tra Venezia e Padova mi ha permesso di conoscere tante persone dalle quali ho imparato a voler bene, sperimentando il senso umano dell’amicizia, ho imparato ad ascoltare, ho scoperto il piacere della lettura e della scrittura, e quest’ultima mi è servita per ritrovare vecchi amici e farmene di nuovi. "No hay mal que por bien no venga". Perché sto scoprendo me stesso in altri aspetti che questa interruzione della mia vita mi ha portato giorno dopo giorno Sarebbe molto difficile dire come starei adesso, se tutto fosse andato diversamente nel fatidico 10 aprile 1993, ma è acqua passata, già non conta, il presente a mio parere è positivo, mi ha arricchito e alla fin fine è questo che conta. "No hay mal que por bien no venga". Perché il tema più delicato è stato la mia famiglia mia madre che son tanti anni che non vedo, la sento per telefono e lei con tutta la sua integrità di donna ottantenne non ha mai mancato di incoraggiarmi, quasi come se non fosse successo quello che è successo. Sicuramente porta la sua croce nel fondo del cuore. Mio fratello e le mie sorelle, che questo fatto mi ha permesso di conoscere più profondamente, molto di più dei trent’anni che abbiamo vissuto assieme. Ho scoperto la loro sensibilità verso di me, il loro amore del quale sono rimasto "invaghito", oso dire che ho imparato ad amare la mia famiglia. Non che tutto questo tempo sia stato solo un cammino di spine, anche qualche rosa è fiorita. In questo cammino di spine ricordo il giorno in cui mi sono deciso con mano tremante a domandare aiuto, già perché per il processo dovevo assumere un avvocato e non avevo neanche una lira. Rimangono le facce di mio fratello e di mia sorella quando ci siamo visti la prima volta, separati da un divisorio a Venezia nella sala colloqui del carcere. Nel cammino di spine rimane l’incomprensione con qualche agente nel periodo passato a Venezia, rimane la non facile convivenza con altri detenuti che la pensavano in modo differente dal mio, rimangono i contrasti talvolta violenti . rimangono le frustrazioni quasi giornaliere per procurarsi il necessario. Rimane il linguaggio tecnico-burocratico che ho dovuto apprendere per domandare di soddisfare la più banale di queste necessità. Rimane la minaccia costante di un rapporto disciplinare. che ti porta ad una commissione di disciplina dalla quale raramente esci innocente. Rimane la lontananza dei sogni, che sono rimasti questo. sogni. "No hay mal que por bien no venga", "non tutto il male vien per nuocere", perché in generale, guardando i punti negativi e quelli positivi, sono arrivato alla conclusione che importano solo i secondi, cioè tutto quanto di positivo ho ricevuto nel via vai di questi giorni dalle persone che ho conosciuto, qui dentro e fuori. Hanno perfino rinvigorito la mia volontà di ricominciare un’altra vita con un morale altissimo, perché loro l’hanno temprata come il migliore degli acciai, guarda caso spagnolo, come quello di Toledo.
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