|
Il Viaggio di Alì
Il Viaggio di Alì. La vita, l’amore, il lavoro, dal quartiere Manouba di Tunisi alle fabbriche di conceria del ricco nordest dell’Italia e poi…
Di Lassad Jlassi, detto Alì, giugno 2000
Mi chiamo Alì, sono nato a Tunisi. La mia storia di "migrante" in un certo senso è inizia a quando avevo 17 anni ed andavo a scuola. Frequentavo l’istituto tecnico per meccanici automobilistici, un corso che dura 4 anni, ed io ero all’ultimo anno. Nello stesso stabile c’era la scuola femminile di studi superiori, sono scuole equivalenti ai licei ma la durata degli studi è di sei anni. Avevo molti amici a scuola e con loro ogni occasione era buona per divertirci. Terminate le lezioni ci ritrovavamo in una Caffetteria, ritrovo di molti giovani del quartiere Manouba. Manouba era considerato un pessimo quartiere, perché c’erano ragazzi molto "vivaci", gente molto legata al territorio, chiunque non fosse stato del quartiere rischiava sia di giorno che di notte di trovarsi accerchiato da quattro o cinque ragazzi, che oltre a togliergli tutto quello che il malcapitato aveva addosso di valore, spesso lo malmenavano. Non volevano estranei nel loro quartiere ed anche la polizia, pur andandoci, lo faceva con molta cautela. Io ero amico di molti ragazzi di quel quartiere, perché frequentavamo la stessa scuola ed in comune avevamo una grossa passione: il gioco del calcio. Tre di noi eravamo inseriti nella squadra giovanile dello Stad Tunisien, e di questo eravamo orgogliosi, ma molti ragazzi ci guardavano con invidia ed un briciolo d’odio… anche perché solo uno del loro quartiere giocava in squadra ed io provenivo invece da un’altra zona. Ero arrivato a giocare in quella squadra grazie a mio padre che lavorava nel settore sportivo, naturalmente questo aveva facilitato un po’ le cose… ma quando vai in campo devi saper giocare a pallone, ed io ero e sono bravo, questo senza falsa modestia. Un giorno a scuola conobbi una ragazza, aveva un anno meno di me, era stupenda: capelli lunghi e neri che incorniciavano un volto "musrara" (che significa sempre sorridente e bello da vedere). Il suo nome, Sonia. Era anche lei del quartiere Manouba, ma seppi che non voleva avere a che fare con i ragazzi del suo quartiere perché erano troppo casinisti, lei voleva andare via, farsi una vita altrove. Al quartiere Manouba io ci andavo spesso, sia per la scuola che per il fatto che lì avevo molti amici, anche se abitavo con la mia famiglia nel quartiere Bardo, un quartiere molto più tranquillo. Il fatto che non ero del suo quartiere giocò a mio favore negli approcci iniziali, tra me e Sonia, e diventammo subito amici: ci frequentavamo dopo la scuola, io la accompagnavo nelle vicinanze della casa dove abitava con i suoi, con il mio motorino, non potevo farmi vedere dalla sua famiglia perché avrei fatto passare dei guai a lei e sarebbero venuti a cercare anche me. Nel nostro paese, è sempre stato così: se vuoi frequentare una ragazza devi seguire un rito ben preciso. In pratica avrei dovuto fare così: per prima cosa parlare con mia madre, poi mia madre ne avrebbe parlato con mio padre. Se la famiglia della ragazza era conosciuta i tempi per un contatto tra le famiglia erano quasi immediati, mentre se la famiglia non era conosciuta ci voleva del tempo, si attivavano anche gli altri membri della famiglia, in pratica si cercava prima di incontrare i familiari della ragazza e di avere quante più informazioni possibili sul conto della stessa. Le informazioni che interessano di più sono: l’onestà della famiglia in generale ed in particolare dei genitori, la solidità finanziaria è importante ma non determinante, se la famiglia del ragazzo è integralista cercherà che anche la famiglia della ragazza lo sia, altrimenti non se ne farà niente. Io e Sonia sapevamo benissimo queste cose e non avevamo nessuna intenzione di rendere pubblica la bella storia che stava nascendo tra noi. Questa storia andò avanti per due anni: stavamo bene insieme sotto tutti i punti di vista, e soprattutto riuscimmo a tenere la cosa nascosta, nonostante alcuni ragazzi del quartiere tentassero di intromettersi nel nostro rapporto, ma senza riuscirci: ormai eravamo troppo legati. Finito l’ultimo anno scolastico presi il diploma con un buon voto finale. Avevo diciotto anni, un diploma, una bella ragazza, ed un’ottima famiglia, finanziariamente non avevo dei grossi problemi, mio padre aveva un’officina meccanica per motociclette, però io non volevo lavorare con lui, anche se spesso andavo ad aiutarlo in officina. In pratica il mio diploma di meccanico di auto non lo potei utilizzare mai, perché il lavoro che mi veniva offerto era sempre sottopagato. Di lì a poco la storia con Sonia si concluse, conobbi un’altra ragazza e ci persi subito la testa. Il suo nome è Fatma. Da quel giorno decisi di darmi da fare, volevo realizzarmi come uomo, volevo una casa mia, un lavoro, e questo la mia terra non poteva offrirmelo, quindi decisi di lasciare la Tunisia ed andare in Francia. Quella era l’intenzione, ma dovevo passare dall’Italia. Arrivai in Italia con una nave della Tirrenia e con tutti i documenti in regola. Partii dal porto di Alki Ouad, vicino a Tunisi. Non avevo mai messo piede su una nave, ed era bello vedere intorno a me solo mare e cielo e l’odore salmastro fortissimo, ma tutto questo lo avrei certamente apprezzato di più se non fosse che dopo quattro ore di viaggio stavo già male, mi girava la testa e tutto il resto… insomma, ho conosciuto il mal di mare. Se avessi potuto in quel momento sarei tornato indietro, stavo troppo male… la nave proseguì invece la sua navigazione per altre interminabili quattro ore. Attraccammo nel porto di Trapani alle quattro di pomeriggio, era l’inverno del 1989. Sapevo che a Vicenza c’erano dei ragazzi del mio quartiere, erano lì regolarmente, avevano una casa e lavoravano in conceria con i libretti in regola.
Italia, nordest, lavoro e solitudine Volevo vederli e poi partire per la Francia, invece i miei amici mi convinsero a restare in Italia, e la cosa non mi dispiaceva affatto, l’Italia mi attirava, anche se non capivo ancora una sola parola di italiano. Sembrava che tutto si potesse risolvere facilmente, ma alla fine mi sono trovato da solo in un paese straniero e con nessuno disposto ad aiutarmi, nemmeno i miei amici, e ho dovuto arrangiarmi. Mi mostrarono la zona dove sorgevano le fabbriche di conceria ed andai a chiedere un lavoro, mi assunsero subito, guadagnavo un milione e cento al mese per i primi mesi. Per dormire avevo trovato un posto letto con dei miei paesani, il lavoro era veramente pesante, ma lo facevo volentieri perché avevo bisogno di soldi per sposarmi e fare venire in Italia la mia donna. Tra i miei intenti c’era anche quello di mandare soldi in Tunisia per aiutare la mia famiglia e dimostrar loro che non ero un perditempo, ma avevo imparato un lavoro e ci sapevo fare, mio padre aveva un pessimo giudizio di me gli stavo dimostrando invece che ero in gamba. Avevo imparato il lavoro in conceria, ora guadagnavo due milioni e mezzo al mese, stavo bene, volevo divertirmi, nel tempo libero, nei periodi delle feste e delle ferie, giravo l’Italia. In Italia ho passato cinque anni molto intensi. Per festeggiare il capodanno del ‘94 andai con amici in Svizzera e lì, tra l’euforia della festa e un po’ d’alcol in più, mi ritrovai ad usare eroina, da quel momento la mia vita è cambiata, scivolavo sempre più verso l’abisso della droga e da allora tutte le mie scelte furono dettate dal continuo bisogno di droga e la mia vita fu stravolta. Persi il lavoro, e tutto il resto venne di conseguenza.
|
|