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Ad un passo dalla meta. Quando fuggire è una forte tentazione
Di Imed Mejeri, agosto 1999
Sono uno di quelli che in Italia chiamano "extracomunitari", devo dire che e una definizione che mi ha sempre incuriosito. All’inizio ho pensato alla "generosità" culturale del paese che mi ospita nell’usare per noi stranieri quel termine. essere definito "extra" nella mia terra, la Tunisia, è infatti un grande onore, è un "extra" quello che mangia tutti i giorni, molto, e bene. Il mio nome e Imed, sono partito dalla Tunisia con 100 dinari tunisini in tasca, e al cambio ho ricevuto 154.000 lire, per me un vero capitale! Era il 1984. Il motivo che mi aveva spinto a lasciare la Tunisia per venire in Italia era uno solo. cercarmi un lavoro, magari stagionale, mettere insieme un po’ di soldi e tornarmene a casa per terminare gli studi. Mi misi subito alla ricerca e dovetti rendermi conto a mie spese che non era poi così facile trovarne uno. Nel frattempo il mio capitale, già al primo giorno, andava esaurendosi. La prima volta che entrai in un ristorante, mi accorsi tardi che non era un ristorante qualsiasi: un piatto di pasta al ragù, una coscia di pollo, un’insalata e una coca-cola mi costarono infatti metà del mio capitale. Evidentemente era un ristorante di lusso, ma per me, che non sapevo nulla dell’ltalia, era solo un posto dove poter mangiare. In quegli anni non esisteva ancora nessuna associazione o ente che potesse consigliarmi e insegnare come muovermi in Italia, come ora in parte accade. Ho dovuto imparare a cavarmela da solo, ho scelto la via più breve ma ho capito solo più tardi che era quella che mi avrebbe portato a fare molti errori infrangendo la legge. Tra questi errori, c’è stato quello di iniziare a spacciare la droga e di farne uso. Ho scontato quattro anni di carcere, l’ultimo anno in custodia attenuata, riservata a chi è tossicodipendente. Uno dei problemi maggiori per noi stranieri è che, non avendo spesso ne permesso di soggiorno, ne documenti in regola, non possiamo avere di conseguenza nessuna residenza. Questo della residenza è l’ostacolo, che in pratica è alla base della scarsa disponibilità dei servizi sociali, tipo il Ser.T., a prenderti in carico per seguirti e aiutarti. Per questo motivo, per noi stranieri è quasi impossibile usufruire di misure alternative alla detenzione, come avviene per gli italiani. In pratica, a parte il beneficio della liberazione anticipata (90 giorni annui da detrarre al fine pena, se teniamo buona condotta), dobbiamo espiare la pena al completo. Da questo punto di vista, sono uno dei pochi fortunati. Nel maggio 1997, fui inserito in un progetto sperimentale, la custodia attenuata. A questa sezione sono ammessi tossicodipendenti italiani e stranieri che non abbiano il fine pena superiore ai 5 anni. Il trattamento che ho ricevuto in questa sezione mi è stato utile, perché mi ha dato la possibilità di essere ammesso ad una comunità terapeutica presso il Centro padovano di accoglienza . Mi trovavo ormai in comunità da sette mesi, mi ero fatto nuove amicizie, ero ormai fuori dal giro della droga, quando l’arrivo di una sentenza definitiva che mi alzava il fine pena mi ha ricondotto in carcere. Stando fuori avevo frequentato un corso di decoratore, imparando la delicata arte di lavorare con il marmorino e la pittura fresca e ottenendo anche una borsa di studio; inoltre, dopo aver seguito uno stage di un mese per fare esperienza, avevo ricevuto anche una promessa di assunzione. Quella mattina del 25 marzo mi ero svegliato presto e stavo leggendo un bellissimo libro, Un luogo chiamato libertà, che mi piaceva perché il protagonista, per conquistare la sua libertà, affrontava mille pericoli e avventure, un po’ come me nella condizione di immigrato in cui mi ritrovo. Improvvisamente il direttore della comunità mi fa chiamare nel suo ufficio: entro tutto ansioso, con la mia abituale giovialità e un bel sorriso stampato sul viso, pensando: "Finalmente e arrivata la richiesta di lavoro… oppure sarà l’affidamento definitivo". Ma mi rendo conto subito che c’è poco da ridere. Due poliziotti in borghese si rivolgono a me e mi dicono. - Ci dispiace ma deve seguirci in questura, le è stato revocato l’affidamento, le sono arrivati un anno e sei mesi definitivi. Non so se loro erano veramente dispiaciuti… ma io sì! Il mondo è sembrato crollarmi addosso, avrei voluto gridare, cazzo non è giusto! Mi sentivo come un bambino deluso, sapevo che avevo questa pena da scontare ma pensavo che avrei potuto farlo in misure alternative al carcere, purtroppo non è andata così. Sono nuovamente in carcere, perché avevo ancora un debito con la giustizia e mi è stato puntualmente presentato. Fortunatamente al mio arrivo in carcere ho ritrovato amici che come me stanno tentando, e con successo, di dare una svolta e cambiare stile di vita, mi sono stati vicini e questo è stato per me molto importante. Avevo accettato la mia nuova vita, dando le spalle al passato e ripromettendomi di non finire più in carcere, sono ancora deciso a mantenere questo impegno con me stesso.
Perché sono soprattutto gli stranieri ad essere tentati dall’idea di evadere?
Ma non è certo facile mantenere certi impegni. La vita che conduce uno straniero in carcere è infatti incredibilmente dura: non avere nemmeno il minimo indispensabile per la sopravvivenza fa scattare il meccanismo per cui, quando si presenta l’occasione, come durante un permesso premio, fuggire è una forte tentazione. Le difficoltà nei contatti umani, derivanti dalle barriere linguistiche, l’assenza di affetti e la mancanza del denaro necessario per far fronte ai piccoli bisogni quotidiani, in particolare le sigarette ed i caffè, portano lo straniero a vivere male il presente e a non vedere una chiara prospettiva di vita futura. Anche accettando il periodo di carcerazione che deve scontare, lui sa che, pagato il debito nei confronti della società, verrà espulso dall’Italia e tutto verrà dimenticato come se il periodo di sofferenza rappresentato dalla detenzione non fosse mai esistito. Ecco quindi che qualcuno si autoconvince che la prospettiva più realistica per lui sia di ridurre il più possibile il tempo della carcerazione, approfittando di qualsiasi occasione per riconquistare la libertà perduta. Come mai io non ho approfittato delle opportunità che ho avuto per fuggire ed invece ho voluto continuare a soffrire e a pagare, fino in fondo, il mio debito? Sono diverso dagli altri? Sono più fortunato o sfortunato degli altri? Ho analizzato a fondo il mio futuro e le alternative che mi si prospettavano erano di ritornare alla vecchia e stupida vita di drogato e spacciatore, con i costante pericolo di vedere intorno a me gente che non conosce un modo migliore per andare avanti e con la prospettiva molto probabile di essere nuovamente preso e sbattuto dentro. Così, oltre a completare quello che ancora mancava della precedente condanna, ci sarebbe stata senz’altro per me un’altra bella botta di carcere. E questo dopo anni ed anni di galera, con tutti i sogni infranti, senza una lira e senza una speranza, con l’età che non consente più alcun errore o tentennamento. L’alternativa è stata quella di guardare dentro di me, tirare fuori tutta la volontà e la coscienza per accettare quello che è successo in precedenza, per continuare a pagare il debito contratto e ricavare dall’esperienza la capacità di non ricadere più negli errori fatti. È questo che io voglio, debbo fare, e farò. Sono stato quindi un fortunato, perché ho incontrato le persone in grado di aiutarmi a trovare la giusta via, vale adire la forza di tornare in carcere per una ulteriore vecchia e dimenticata condanna, che ha fatto sì che io non potessi rimanere in affidamento, non rientrando più nei termini per ottenerlo. Ho capito però che non potevo sottrarmi a questa prova e non dovevo farmi prendere dalla smania di alcuni miei compagni di cercare la via più semplice e fuggire, diventando braccato per sempre. Ora so che con il mio atto ho conservato la stima e l’affetto delle persone che mi sono state vicine al momento del mio provvisorio reinserimento nella società, e so anche che queste persone mi aspettano, e ci saranno non appena sarò nei termini per accedere nuovamente a quanto di costruttivo avevo iniziato e che certamente porterò a termine.
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