Il sovravvissuto

 

Ovvero: detenuti nel bunker

 

Di Guido Galvan, ottobre 1998

 

Dopo quindici giorni di "assenza giustificata" è ritornato in sezione un nostro compagno. Era stato colpito da una forma strana d’infezione cutanea di cui i sanitari del carcere non riuscivano a fare una diagnosi precisa. Per un mese intero hanno provato con creme, pillole ed iniezioni, il risultato è stato di alleviare in parte il prurito insopportabile senza peraltro determinarne le cause e l’eventuale contagiosità.

Non è rimasto altro che spedirlo all’ospedale di Padova, più organizzato in materia, e questo è il racconto della sua triste esperienza.

 

Ciao Dino. Sei tornato finalmente. Questo significa che stai bene e che tutto è passato.

 

Sì, ora sto meglio, ma non auguro a nessuno di fare l’esperienza che ho appena passato. Mi sembra di essere stato all’inferno, e non più semplicemente all’ospedale di Padova. Quando ho accettato di essere mandato all’ospedale per essere curato da una infezione di cui nessuno riusciva a comprendere le origini, sono rimasto colpito dalla denominazione del locale riservato ai detenuti: Il Bunker!

Bunker? Ma non erano le case matte costruite al tempo della guerra, specie di locali in cemento armato inespugnabili, a difesa di qualche cosa?

Sì, ma qui da difendere non c’era proprio nulla. Le vere sorprese sono state ben altre. Questo bunker si trova in un angolo cadente del vecchio ospedale. E’ costituito da tre celle, ma io ne ho potuto "visitare" soltanto due. Danno su uno strettissimo corridoio senza finestre e con un’unica porta di accesso. In un angolo del corridoio svolgono vita da "prigionieri" due agenti di custodia che controllano i malati almeno cinquanta volte al giorno, e per fortuna che li controllano. Naturalmente la luce rimane sempre accesa, giorno e notte.

 

Almeno le cure mediche adeguate ti sono state prestate?

Aspetta. La depressione è la prima malattia che ti devono curare una volta lì e questa si somma a quelle già esistenti. Se prima non ce l’aveva, lo sventurato che finisce in un simile lugubre ambiente la trova gratis.

 

Qualche comodità l’hai trovata?

La mia cella aveva le dimensioni di quella del carcere, ma con un soffitto altissimo, quanto un abete vecchio di 40 anni. Dentro non c’è niente, solo un letto e un piccolo lavandino. La finestra è costituita da uno stretto rettangolo chiuso ermeticamente con un vetro antiproiettile. L’aria che entra da un bocchettone è quella del ventilatore o condizionata. Dal rettangolo si può godere di una vista ristretta su un viale interno all’ospedale.

Non si può fumare, non c’è la televisione, non un libro da leggere o un giornale, niente radio e niente passeggi. E così finisce che uno diventa pazzo, o depresso! Dal letto in cui si è distesi, si fissa per giorni interi la porta che hai di fronte, anche questa blindata ed ermeticamente chiusa, e sulla porta una finestrella anch’essa con un vetro antiproiettile. Se si sta male bisogna arrivare alla porta, battere il più forte possibile dato che non c’è il campanello per le chiamate d’urgenza, spiegare all’agente il motivo della chiamata, e questi a sua volta chiama al telefono l’infermiere di turno, rispiegare il tutto ed attendere, aspettando fiduciosi che qualche medico arrivi.

 

E’ difficile credere che in un ospedale, che è il luogo in cui si ha più bisogno di attenzioni, si possa invece venir trattati così. Ma almeno l’igiene sarà stata accettabile?

Non ho ancora finito. Per la doccia si deve andare nella cella a fianco dove, tra water e lavandino, si può far scorrere l’acqua che esce da un tubo posto nel muro. Doccia! Ci si può lavare, ma per definirla doccia ci vuole tanta fantasia. Questa seconda cella è un po’ più grande. I posti letto sono tre ma l’arredamento è lo stesso della cella dove sono rimasto io per cinque interminabili giorni.

 

Sì, va be’, ma la cura?

Il primo giorno è stato il più umiliante. Ammanettato ed a catena, sorvegliato da due agenti increduli, sono stato portato nella sala d’attesa del pronto soccorso, pratica necessaria per l’accettazione. Mi sono seduto per terra in attesa del mio turno, poi, graziato dalla comprensione di due agenti, dopo quasi un’ora di "meditazione indiana" sono stato riportato nel furgone e questo per sottrarmi agli sguardi della folla di curiosi che passandomi accanto mi lanciavano occhiate di disprezzo, rigiudicandomi per chissà quale efferato delitto. Finalmente è arrivato il medico, il quale ha semplicemente firmato il foglio di ricovero.

 

E non ti ha chiesto niente riguardo alla tua malattia, ai sintomi, alla cura?

Dopo aver passato mezza giornata in cella, con la sola compagnia musicale dello strascico dei miei piedi sul pavimento, ho ricevuto la visita di quello che chiamerò "il caporeparto", che si è preoccupato prima di tutto di sapere il motivo e la gravità della mia condanna, come se questa avesse valore medico.

Disposte le stesse analisi fatte in carcere, il giorno seguente mi inviò il dermatologo e questi, guardandomi da lontano, dai piedi del letto sul quale ero disteso, mi fece mandare la stessa pomata antiprurito inutilmente sperimentata in carcere.

Una visita specialistica quantomeno discutibile! Poi più nulla. Poiché nessuno è mai venuto, in cinque giorni, a fare le pulizie, sono arrivato ad essere letteralmente sommerso da una montagna di contenitori dei pasti preconfezionati che mi venivano consegnati nelle ore di pranzo e di cena. Alla fine ho espressamente chiesto di essere riportato in carcere dove, almeno, i medici sono più disponibili e a volte premurosi. Pensavo fosse la soluzione migliore. Il "caporeparto" ha acconsentito subito, indignato per la mia osservazione, e cioè che nemmeno in Africa, dove ho lavorato per parecchio tempo, avevo mai visto un malato abbandonato così. Naturalmente alla mia partenza non ha voluto saperne di parlarmi. In carcere sono stato curato ed ora sto meglio.

 

Una tua considerazione finale?

Una sola: mi considero fortunato! Sono un sopravvissuto dal bunker!