Quando un gruppo di criminali decide di fare qualcosa di utile

 

Difficile racchiudere in un’unica formula la bizzarra alchimia che ha consentito a un gruppo di galeotti di dare vita e far crescere una realtà ormai apprezzata in tutta Italia

 

di Graziano Scialpi, agosto 2005

 

Cinquanta numeri e nulla è cambiato. Certo sono aumentate la competenza e la professionalità, ma il dato di fondo rimane: la redazione di Ristretti Orizzonti continua a pullulare di simpatici farabutti. Un branco di canaglie che una volta nella vita, in forza di qualche misteriosa alchimia, ha deciso di usare la propria intelligenza e le proprie capacità non per combinare guai, ma per fare qualcosa di utile e costruttivo per se stessi e per gli altri. E la cosa più stramba è che ci hanno preso pure gusto a farlo.

Il senso comune dice che a tirare fuori dalle celle una ventina tra pregiudicati e pluripregiudicati recidivi con sul groppone qualche secolo di condanne complessive e a metterli in una stanza sotto il “controllo” di una sola donna non ne può venire nulla di buono. E invece ne sono saltati fuori un ottimo giornale, un sito internet completissimo, tre libri pubblicati, e poi guide per detenuti e per insegnanti, ricerche, convegni, progetti per aiutare i senza fissa dimora, prevenzione della devianza nelle scuole e chi più ne ha più ne metta… A pensarci bene non sembra molto logico, ed è ancora più incredibile se si considera che, per partecipare a questa avventura, molti hanno rinunciato a un lavoro retribuito, e tutti rinunciano alle ore d’aria e alla possibilità di andare al campo sportivo e alla palestra. Eppure è innegabile che è quello che è accaduto e accade quotidianamente.

Qual è il segreto di tanta proficua laboriosità da parte di persone, molte delle quali non hanno mai lavorato in vita loro? Forse è solo la voglia di fare qualcosa di utile senza piangersi addosso, o forse è stato il sentirsi responsabili per la fiducia accordata, forse è stata la voglia di continuare (o per molti di esserlo per la prima volta) in qualche modo a essere parte attiva della società pur essendo rinchiusi dietro le mura di un carcere… Chissà, forse è qualcosa nell’acqua o nell’aria di Padova… Difficile trovare un’unica spiegazione per una realtà il cui successo è reso ancora più sconcertante dal fatto che si è verificato non in una delle capitali italiane, ma alla periferia “dell’impero” (più volte abbiamo scherzato in redazione sul fatto che anche noi facciamo parte della “locomotiva Nord-Est”).

Certo è che in questi anni in redazione si è instaurata una disciplina e un’etica del lavoro di gruppo che viene “tramandata” dai “vecchi” redattori ai nuovi arrivati che magari, come spesso è accaduto, avevano chiesto di entrare a far parte di Ristretti solo per uscire dalla cella e che poi si sono “innamorati” di questo lavoro mettendoci tutto il loro impegno. A tal punto che spesso il lavoro viene portato anche “a casa”. Grazie al nuovo Regolamento penitenziario, molti redattori possono disporre ora di un computer portatile che consente loro di lavorare anche in cella, dilatando a dismisura la produttività possibile nelle poche ore in cui è possibile scendere in redazione.

Un altro punto di forza di Ristretti, che in questi anni non è cambiato, è che in tutti i dibattiti, in tutte le discussioni che si fanno in redazione, si cerca sempre di tenere ben presente anche gli altri punti di vista. Ovvio che Ristretti Orizzonti è un giornale del carcere, fatto da carcerati e che parla di problemi del carcere, ma non dimentichiamo mai che ci sono anche le vittime dei reati, che ci sono regole ed esigenze sociali, che ci sono le leggi e le esigenze della sicurezza. Questo è un aspetto talmente importante del lavoro che un redattore (il sottoscritto) si è arrogato lo specifico compito di far sì che non venga mai dimenticato.

Oltre alla grafica, infatti, la mia specialità è “sostenere l’altro punto di vista”. Quando la redazione si riunisce intorno al lungo tavolo per discutere qualche argomento o problema particolare io fingo di avere qualcosa di importante da fare al computer, oppure mi aggiro sornione per la stanza e aspetto con aria distratta il momento giusto. Non appena si crea un certo consenso intorno a un’opinione mi “risveglio” improvvisamente e piombo nel dibattito con la delicatezza di un avvoltoio, ergendomi a granitico difensore dell’opinione diametralmente opposta. Così, anche se di tanto in tanto devo difendere il punto di vista del carcerato (di solito non ce ne è bisogno, la redazione è gremita di carcerati decisi a sostenere il loro peculiare punto di vista), il più delle volte indosso i panni del Ministro della Giustizia, dell’Opinione Pubblica, del Magistrato di Sorveglianza del Direttore e lancio i miei strali senza pietà. Secondo alcuni, con questo sistema metterei alla prova la bontà dell’opinione in questione, portandone alla luce le pecche e le contraddizioni che erano sfuggite nel dibattito e costringendo i suoi sostenitori a difenderla con le unghie e con i denti.

Secondo altri (tutti gli altri tranne me), lo farei semplicemente per rompere le scatole.