Nella testa di un uomo che ha ucciso

 

Il racconto “in diretta” di cosa significa finire dietro le sbarre con un grave delitto che pesa sulla coscienza. Durante gli incontri con i detenuti, molti studenti hanno chiesto com’è l’impatto con il carcere, senza poter ricevere una risposta esauriente a causa dello scarso tempo a disposizione

 

di Graziano Scialpi, febbraio 2005

 

Da quando ho iniziato a fare un giornale in carcere, e a discutere con i detenuti assolutamente di tutto, senza tabù, paure, chiusure, ho cominciato anche a misurarmi in modo diverso con l’“altra” informazione, quella  fatta da giornalisti professionisti, e non, come Ristretti Orizzonti, da dilettanti. Una prima considerazione che mi viene in mente è che, avendo intorno, durante le riunioni di redazione, molte persone che hanno ucciso qualcuno, e spesso anche qualcuno di molto vicino, nelle loro famiglie, ho sentito da subito quanto sbagliato sia il concetto di “mostro” applicato automaticamente a chi uccide. La vita, per fortuna, è una cosa così complessa, che riserva sempre delle grandi sorprese a chi tenta di semplificarla.

Eppure basta accendere la televisione per essere bombardati ogni giorno da notizie su omicidi, e in particolare omicidi in famiglia, dove chi uccide viene descritto come una specie di mostro lucido e spietato che brinda in cella se gli viene ridotta la pena (vedi caso Jucker). E questa idea è ben radicata anche nella testa di molti studenti che, negli incontri con i detenuti, quando chiedono “Ma tu perché sei dentro” e vorrebbero sapere il reato commesso, fanno capire che secondo loro un uomo che ha ucciso non può avere sconti di pena né benefici, e che uccidere ti mette fuori dalla società per sempre. Quella che segue è una testimonianza, per certi versi agghiacciante, di quello che succede “dopo”, dopo che un uomo fino a quel giorno assolutamente “regolare” (in questo caso, faceva proprio il giornalista) ha ammazzato una persona della sua famiglia e si ritrova, di colpo, nell’orrore della sua testa impazzita, della sua coscienza e del carcere. La pubblichiamo perché almeno qualcuno di quelli che parlano facilmente di “mostri” possa fare un salto sulla sedia leggendola, e sentirsi lo stomaco torcere non per l’orrore, ma per un po’ di vergogna per certi giudizi sommari.

Ornella Favero - Redazione di Ristretti Orizzonti

 

È il 21 dicembre, ed è sabato. Le strade sono invase da gente che si affanna da un negozio all’altro per gli acquisti di Natale. L’auto dei carabinieri corre come se rinchiudermi in carcere sia una questione di vita o di morte. Le gomme stridono e l’autista impreca mentre l’Alfa Romeo scansa strombazzando i pedoni che scendono dal marciapiede nella corsia preferenziale per superare gli ingorghi davanti alle vetrine. Registro ogni particolare senza emozione. Mi sento come un fantasma che vede continuare intorno sé una vita di cui non fa più parte. Il mio unico desiderio è raggiungere la prigione. Non mi interessa altro. Sono talmente concentrato sulla mia destinazione che riesco ad bloccare i pensieri, le immagini, le emozioni che sento premere con una prepotenza feroce. Non potrà funzionare ancora a lungo, ma non mi preoccupo. Prima che prendano il sopravvento troverò una soluzione drastica e definitiva.

Ho le mani ammanettate dietro la schiena; a ogni sterzata vado a sbattere contro le portiere, a ogni frenata vengo proiettato addosso ai sedili anteriori. Il carabiniere al volante sta ripassando a mio beneficio l’intero corso di guida estrema. Con un’inchiodata ci fermiamo davanti al portone del carcere. Sbatto per l’ultima volta contro i sedili anteriori e mi raddrizzo: sono arrivato. Forse ora potrò trovare un po’ di quiete dopo questa giornata allucinante.

I carabinieri aprono le portiere e mi fanno scendere. Prima di salire i quattro gradini che conducono al portone mi volto e osservo le vetrine e le decorazioni luminose. Mi riempio i polmoni dell’ultimo respiro di libertà. Ho la certezza che di lì non uscirò vivo, sto entrando nel mio sepolcro. Uno dei due carabinieri, il più giovane, coglie il gesto e si blocca. È un nanosecondo di acuta empatia. Mi guarda negli occhi e sembra che qualcosa sia dando una spallata alla sua bocca. Ma una simile parola non esiste, non può essere pronunciata. Gira lo sguardo verso il portone e riprende a camminare. 

Saliamo i gradini e passiamo sotto l’arco del metal detector con il cartello giallo che avvisa i portatori di peace maker che il loro cuore potrebbe fermarsi e attraversiamo il primo cancello. Riconosco l’atrio con la corona d’alloro sotto la lapide sulla parete di sinistra che ricorda le guardie di custodia massacrate nel 1945. Sono già stato qui per lavoro. I carabinieri mi fanno svoltare a destra, lungo uno stretto corridoio, fino all’ufficio matricola. Davanti al bancone mi tolgono le manette. Mentre compilano i moduli per il passaggio di consegne, continuo a guardare in giro: alcune scrivanie, dei vecchi schedari, calendari delle forze dell’ordine appesi al muro scrostato. Il mio sguardo si ferma su un attaccapanni d’acciaio dal quale penzolano tre lunghi sfollagente neri. Tornerò decine di volte in quel ufficio, ma non vedrò mai più manganelli. Anzi non li rivedrò più in assoluto, nemmeno durante le proteste. Ma queste cose non le so ancora. Penso che siano una dotazione standard. Non immagino che la loro sia una misura eccezionale presa in mio onore, nella previsione di un’accoglienza “movimentata”, basata su chissà quali voci che hanno preceduto il mio arrivo.

Nel frattempo i carabinieri hanno sbrigato tutte le formalità burocratiche, salutano i colleghi e se ne vanno. Forse anche loro devono comprare i regali di Natale. Da questo momento sono “proprietà” del carcere. Nelle ultime ore il mio unico pensiero era arrivarci… ora che ci sono mi rendo conto di non avere idea di cosa mi attende. Forse, ora che i carabinieri non ci sono più, quegli sfollagente verranno usati per insegnarmi le regole della galera. Forse per gli assassini è riservato un trattamento speciale. In ogni caso il pensiero non mi turba, anzi, quasi mi attrae. Mi sento come avvolto in un bozzolo di nauseante irrealtà. Magari un po’ di manganellate potrebbero rompere il guscio e riportare le mie sensazioni a una parvenza di normalità. Magari mi sveglio e scopro che è stato tutto solo un orrendo sogno.

Ma gli sfollagente rimangono sull’attaccapanni. Il sovrintendente invece mi invita a firmare le ricevute per i miei effetti personali e per le duecentomila lire che ho nel portafoglio. Quando prendo la penna mi accorgo che la mano trema. Anzi, no, tremare non è il termine esatto. Quando cerco di usarla si muove a scatti irregolari come se fosse dotata di una volontà propria. Devo tenerla con la sinistra per riuscire a fare uno scarabocchio sul grosso registro dalla copertina di tela grigia.

Quindi mi prendono le impronte digitali e mi scattano le foto con una Polaroid. Foto di fronte, foto di profilo e poi mi fanno girare faccia al muro e scattano parecchie foto anche ai punti di sutura che ho sulla nuca, dove un carabiniere mi ha colpito una mezza dozzina di volte con il calcio della pistola nel vano tentativo di tramortirmi. Questa precauzione mi fa pensare che forse, dopotutto, non verrò bastonato. Ma la cosa mi lascia indifferente. E poi ci sono molti modi di picchiare senza lasciare segni.

 Terminate le foto il graduato mi dice bruscamente di togliermi cintura, lacci delle scarpe e cravatta. In pochi secondi mi libero di cintura e lacci e li poggio sul bancone, ma non riesco a togliere la cravatta. Il sangue, il mio sangue che ha impregnato il nodo si è ormai seccato e, per quanto mi sforzi con le dita tremanti, non riesco ad allentarlo. Lo spiego al sovrintendente e all’agente che sono in attesa e li prego di tagliare la cravatta con le forbici. I due si guardano perplessi e tergiversano. Il sovrintendente obietta che la cravatta si rovinerà. Rispondo che comunque è da buttare. Con molta cautela i due agenti escono da dietro il bancone, mi si avvicinano e la tagliano facendo passare delle lunghe forbici nei pochi millimetri che separano la tela dal mio collo. La loro preoccupazione non è per la cravatta. Non vorrebbero avvicinare le forbici alla mia portata, ma non hanno scelta: la cravatta deve essere tolta.

Una volta risolto il problema della cravatta, sorge quello degli occhiali. Gli agenti me li fanno togliere e studiano con attenzione le leggere lenti di vetro al titanio. Mi chiedono speranzosi se posso farne a meno, rispondo che senza di essi non ci vedo. Altro scambio di sguardi perplessi, ma non c’è verso; anche se non vorrebbero, gli occhiali da vista devono lasciarmeli. Le procedure sembrano terminate e il graduato mi riaccompagna nell’atrio. Secondo le norme della buona educazione mi faccio da parte per lasciarlo passare. Ma lui mi dice bruscamente di camminare. Altra regola base del carcere: l’agente non deve mai dare le spalle al detenuto, che deve sempre precederlo. Impiegherò parecchio tempo per liberarmi dell’abitudine cortese di cedere il passo. Attraversiamo l’atrio fino a raggiungere un cancello speculare al portone d’entrata: è di ferro rinforzato da longheroni e dipinto di blu, l’unica apertura è uno spioncino di dieci centimetri sulla porticina al centro, serve per controllare chi vuole uscire, non chi entra. Un agente apre il cancello ed entriamo in uno spazio di un paio di metri quadrati, di fronte c’è un altro cancello, a sinistra una scala di pietra che sale ai piani superiori. Vado verso il cancello, ma mi dicono di andare a destra ed entro in una stanzetta male illuminata da una lampadina nuda da pochi watt che penzola dal soffitto. I muri sono scrostati e riscoperti di scritte e di segni neri lasciati dallo spegnimento di sigarette. Al centro della stanzetta c’è una sorta di paravento di compensato che un tempo doveva essere verniciato di grigio, sul pavimento una pedana di legno. 

L’idea della bastonatura di benvenuto riprende vita, sembra proprio il luogo adatto. Entro senza esitare e aspetto i colpi, ma mi viene ordinato di togliermi tutti i vestiti. Mi spoglio senza protestare e consegno i vestiti all’agente munito di guanti usa e getta, che li controlla, passando le dita anche lungo le cuciture. Quando sono completamente nudo il graduato mi ordina di fare le flessioni. Obbedisco e mi piego in avanti fino a toccare con le mani per terra. Lui scoppia a ridere e mi chiede se è la prima volta che entro in galera. Alla mia risposta affermativa mi spiega che devo allargare leggermente le gambe e poi accucciarmi sui talloni e rialzarmi per due o tre volte. Eseguo l’ordine. Quindi mi fa spalancare la bocca e spostare la lingua di lato e infine mi fa alzare le braccia per controllare sotto le ascelle. Posso rivestirmi. Però mi riconsegnano solo le mutande, le calze, le scarpe e i pantaloni. La giacca, la camicia bianca e anche la canottiera sono zuppe di sangue rappreso. Non mi ero reso conto di averne perso così tanto. In ogni caso le ficcano in un grosso sacco per le immondizie di plastica nera. L’agente esce dallo stanzino e rimango solo con il sovrintendente. Sono a torso nudo, fa molto freddo e tutto lo stress e gli shock della giornata mi stanno crollando addosso. Inizio a tremare. Il sovrintendente se ne accorge e mi intima più volte di stare calmo. Avverto un certo allarme nella sua voce e cerco di spiegargli di non avercela con lui. “Ah, meno male!” è il suo commento. Continuo a tremare e non riesco a fermarmi. Poco dopo ritorna l’agente e mi porge una felpa grigia. La infilo e i due agenti mi fanno uscire dallo sgabuzzino. Passiamo l’altro cancello.

Mentre percorriamo il corridoio, reggo i calzoni con la mano sinistra e trascino i piedi, un po’ per non perdere le scarpe senza i lacci, un po’ perché le gambe mi stanno cedendo. Alla fine del corridoio mi fanno girare sinistra. C’è una rampa di scale con i gradini di pietra. Inizio a salirla. Ad ogni piano mi fermo e guardo gli agenti, che mi fanno cenno di proseguire, fino al terzo e ultimo piano. Di fronte alla scala un piccolo atrio, a sinistra il cancello tinto di verde che dà accesso a un corridoio di celle, di fronte l’infermeria. Mi fanno entrare. Il medico è piuttosto brusco, mi chiede i dati anagrafici, le malattie che ho avuto, dà un’occhiata alla ferita che ho sulla nuca e, infine, mi porge un bicchiere usa e getta con dentro del liquido. Lo bevo, dal sapore potrebbe essere Valium o qualcosa del genere. La “visita” dura in tutto un paio di minuti. Gli agenti mi riportano dabbasso. Sono a digiuno da almeno ventiquattro ore e quello che mi ha propinato il medico inizia immediatamente a fare effetto. Le gambe diventano sempre più pesanti. Scendo le scale lentamente e trascino i piedi. Il fatto di rischiare di perdere le scarpe  a ogni passo non mi aiuta. Torniamo al piano terra e mi fanno girare a sinistra. Dopo pochi passi ci fermiamo davanti al cancello del reparto di isolamento. Un graduato esce da uno stanzino a sinistra del cancello e lo apre. È l’assistente di servizio nel reparto, a differenza degli altri agenti, indossa una mimetica grigia con gli anfibi. Mi fa cenno di precederlo lungo i corridoio, ma non sono abbastanza veloce per i suoi gusti, così mi spintona alla schiena usando la lunga chiave di ottone. Ma io continuo a trascinare i piedi.

Mentre avanzo avverto la presenza dei detenuti affacciati sulla porta delle celle che si aprono ai miei lati. Percepisco i loro sguardi, ma non alzo la testa. Non ho la voglia né l’energia per sostenere qualsiasi tipo di confronto. Mi sento come uno di quei disertori o traditori del passato che, spogliati della divisa e umiliati, venivano fatti passare tra due file di loro commilitoni. Vorrei che quella sfilata terminasse, ma la mia cella è proprio l’ultima. Si trova a destra, in una specie di rientranza del corridoio. Di fronte ci sono la porta delle docce e la scrivania dell’agente. L’isolamento è l’unica sezione al cui interno è presente un agente ventiquattr’ore su ventiquattro. Mi fermo di fronte alla cella mentre l’agente armeggia con la serratura. Il cancello è dipinto con vernice verde scuro, mentre il blindato è color beige. Alzo gli occhi e sopra la porta vedo una targa verde con dentro scritto in bianco 8 G.S. Significa Grande Sorveglianza, ma sono anche le mie iniziali e per un attimo riconsidero l’intera mia vita come un percorso predestinato che mi doveva condurre qui, dove una cella col mio nome mi aspettava.

Mentre il cancello si richiude con fragore alle mie spalle osservo la stanza: sarà lunga tre metri e larga meno di due. Sul lato sinistro, fissata sia al muro che al pavimento, c’è la branda di acciaio verniciato d’arancione. Nello spazio che avanza tra la branda e il muro su cui si apre la porta è incastrato un lavabo d’acciaio con sopra uno specchio incollato alla parete. Di fronte al lavabo, incastrato nell’angolo opposto, un water anch’esso d’acciaio. Sul soffitto, che sarà alto almeno tre metri, c’è una telecamera, puntata proprio sul water. La finestra, piccola e dotata di un vetro opaco che si apre a compasso solo per pochi centimetri, è piazzata al livello del soffitto. I muri, fino a un metro e mezzo d’altezza, sono dipinti con una vernice lavabile color beige. Ovunque ci sono schizzi di quella che presumo essere minestra. Sul lavabo è poggiata una ciotola di plastica ripiena di quello che sembra essere passato di piselli, dentro è immerso un cucchiaio di plastica: la mia cena. Nella cella non c’è niente altro, né uno sgabello, né un tavolino, né un armadietto. Ho perso l’olfatto a diciotto anni e mi chiedo che odore possa esserci. Non deve essere piacevole.

Mi avvicino alla branda, sul ripiano d’acciaio bucherellato è poggiato un materasso di gommapiuma ingiallita dagli anni e sul materasso un cuscino di gommapiuma altrettanto vecchio. Mi siedo sul materasso e inizio ad aspettare. Non so che ora sia. Ho perso l’orologio quando mi hanno ammanettato. Mentre siedo a testa bassa comincia un viavai di agenti davanti alla porta della cella. Arrivano da soli o a coppie, mi osservano per qualche secondo, bisbigliano qualcosa tra loro e se ne vanno. Non so cosa abbiano detto in televisione, ma sembra che vengano a dare un’occhiata alla “celebrità”. Mi sento come un animale allo zoo, e forse è quello che sono diventato. Certo non sento più di far parte del consorzio umano. Ho oltrepassato una barriera che non consente di tornare indietro. Arriva anche il direttore del carcere. Ci conosciamo, l’ho intervistato un paio di volte. Non so dove trovo la forza, ma mi alzo e lo saluto. È visibilmente sconvolto e mi chiede cosa è accaduto. Gli rispondo che ho combinato un guaio enorme e che è giusto che paghi. Annuisce e se ne va. Spero di averlo sollevato dall’imbarazzo di dovermi spiegare che la nostra conoscenza precedente non conta più nulla e che non devo aspettarmi altro che di essere trattato come un qualsiasi detenuto. Se ci sono riuscito almeno avrò fatto qualcosa di decente in questo giorno da dimenticare. Mi sembra di aver già dato fin troppo disturbo al mondo intero.

Non appena in direttore se ne è andato arrivano un agente e un detenuto che porta sulle braccia una specie di pacco. Sono la coperta e le lenzuola. Il nuovo arrivato discute per qualche minuto con il suo parigrado in servizio alla sezione. Non sanno bene cosa fare. Alla fine decidono di consegnarmi una vecchia coperta di tipo militare color marrone scuro e con le lettere AP bianche e la federa del cuscino, ma non le lenzuola. Dormirò senza lenzuola per sette mesi.

Infilo il cuscino di gommapiuma nella federa, sistemo alla meno peggio la coperta sul materasso e torno a sedermi sulla branda. Chissà che ora è… non devono essere più delle otto di sera. Eppure mi sembrano passati secoli da quando sono uscito di casa questa mattina. Anzi, da quando la persona che ero e che non esiste più è uscita di casa. Quello che mi ha dato il medico mi intontisce, ma non abbastanza. Non so cosa fare, non so come comportarmi. Non ho nemmeno fame, ma prendo la ciotola con il passato di piselli e la mangio lentamente. È fredda e insapore, ma devo fare qualcosa, qualsiasi cosa che mi impedisca di mettermi a pensare a quello che è successo, a quello che ho fatto.

Ma c’è solo una cosa sensata a cui posso dedicarmi: devo trovare il modo di portare a termine quello che non sono riuscito a fare quando mi hanno arrestato. Devo riuscire a porre fine a questa situazione che non sono in grado di affrontare. Perlustro la cella con lo sguardo attento di chi ha uno scopo. Niente da fare: è completamente nuda. Non c’è nulla che possa aiutarmi ad uccidere quello che resta di me. Impossibile stracciare la coperta e farne una corda e, anche se fosse possibile, non vedo dove potrei fissarla. Però mi hanno lasciato le calze. Sono lunghe fino al ginocchio e posso ricavarne un cordone robusto. Se ne faccio un anello ritorto da fissare alla spalliera della branda e poi ci faccio passare il collo, sedendomi a terra posso riuscire a strangolarmi. Funzionerebbe, ma ci vuole troppo tempo. Non è come saltare da uno sgabello con un nodo scorsoio che ti spezza le vertebre cervicali. Occorrerebbero parecchi minuti prima di morire, non è certo il modo migliore per farla finita. A preoccuparmi non è la sofferenza fisica e neppure l’eventualità un ripensamento dell’ultimo secondo, ma il fattore tempo. L’agente che sta di fronte alla porta della mia cella avrebbe tutto il tempo di intervenire. Per quanto ne so non si assenta mai. E se si assenta lo fa solo per pochi minuti. E poi c’è sempre la telecamera sul soffitto.

C’è qualcuno che osserva il monitor in continuazione? Devo darlo per scontato. L’idea di strangolarmi con le calze deve essere scartata. L’unica altra possibilità che riesco a vedere è la piccola finestra. Salendo sul letto dovrei riuscire a raggiungerla. Anche se il vetro è spesso sono sicuro di riuscire a sfondarlo con un pugno. Ho spezzato tavolette di legno spesse tre centimetri, non può essere tanto più robusto. Il piano è semplice: se l’agente si assenta salto sulla branda, rompo la finestra, afferro una grossa scheggia di vetro e me la conficco nella giugulare, magari arrivo fino alla carotide. Non occorrerebbero più di trenta secondi. Anche se qualcuno mi osserva dalla telecamera farebbe appena in tempo a lanciare l’allarme. Potrei farlo anche subito, ma un dubbio mi frena: e se non fosse vetro? A guardarlo sembra proprio vetro, ma è possibile che dopo avermi negato le lenzuola mi abbiano lasciato una possibilità di armarmi così facile e scontata? Se fosse un materiale infrangibile speciale che accadrebbe? Come reagirebbero agenti dopo avermi sorpreso a sferrare pugni come un forsennato contro la finestra? Cosa fanno in questi casi? Legano il detenuto alla branda? Gli mettono una camicia di forza? Non posso rischiare, devo andare sul sicuro. Pazienza, devo avere un po’ di pazienza. Riuscirò a trovare il modo di farla finita. È curioso, ma neppure una volta mi viene in mente che potrei usare le lenti degli occhiali. Forse la mia dipendenza da questo oggetto è tale che nel subconscio penso di averne bisogno anche per vedere chiaramente nell’aldilà.

Chiedo all’assistente se posso avere una sigaretta. I due pacchetti di Camel che avevo con me e l’accendino li ho dovuti lasciare fuori dalla cella. Ho un bisogno disperato di fumare, ma non oso disturbare l’agente troppo spesso. L’assistente si alza, estrae una sigaretta dal pacchetto aperto, prende l’accendino e percorre i due metri che separano la scrivania dal cancello della mia cella. Si ferma un metro prima, allunga il braccio e poggia la sigaretta sulla finestrella rettangolare che serve a far passare i piatti. Prendo la sigaretta, la metto tra le labbra e schiaccio la faccia contro la finestrella tenendo le braccia lungo i fianchi. Sempre tenendosi a distanza l’assistente allunga la mano con l’accendino e mi fa accendere, quindi mi dice di lasciare il filtro sullo spioncino quando ho finito. Capisco che la procedura è studiata perché non possa afferrarlo, quanto al filtro so che bruciandolo con un accendino e schiacciandolo è possibile ricavarne una specie di lametta. Ma sarebbe buona tuttalpiù per farsi dei graffi, e poi non ho l’accendino.

Aspiro il fumo con avidità nella speranza che mi possa dare un po’ di conforto, ma è inutile, la sigaretta mi sembra finire in pochi secondi, lasciandomi con un bisogno di fumare più forte di prima. Poso il mozzicone sullo spioncino e raggiungo la branda. Mi stendo e mi copro con la coperta. Impossibile avere un po’ di buio. La luce deve restare sempre accesa, il blindato deve restare aperto perché l’agente mi deve controllare continuamente e, anche dal corridoio, i neon inondano la cella della loro fredda luce bianca. Ma sono stremato e finisco con l’assopirmi. Mi sembra di aver appena chiuso gli occhi che un rumore mi sveglia. Apro gli occhi: è l’agente che sta battendo con la chiave d’ottone sulle sbarre della porta. Appena alzo la testa smette, si gira e torna alla scrivania. Voleva accertarsi che fossi vivo. Va avanti così tutta la notte, tutte le notti per non ricordo quanto tempo. Sonni di pochi minuti tormentati da incubi e interrotti dallo sbattere del metallo contro il metallo. Più volte mi alzo, bevo un po’ d’acqua e chiedo una sigaretta al nuovo agente che nel frattempo ha dato il cambio al collega. Lui mi guarda con sospetto e segue la stessa procedura della distanza di sicurezza. Chiedo che ora è, ma mi risponde di dormire. Non ribatto che non posso dormire perché appena mi assopisco è proprio lui a svegliarmi.

La notte mi sembra interminabile. Ma alla fine dalla finestrella inizia a filtrare la luce del giorno. Devono essere circa le sette e mezza. Mi alzo dalla branda con sollievo e mi sciacquo la faccia. Già ieri sera ho scoperto con sorpresa che dal rubinetto esce anche acqua calda. Non ho un asciugamano e mi asciugo con il fazzoletto che ho in tasca. L’agente mi dice che devo pulire la cella. Gli chiedo come posso fare. Lui si rende conto che dovrebbe consegnarmi scopa e spazzolone, ossia armi potenziali, e glissa sulla domanda. Poi ci ripensa e mi consegna uno straccio per pavimenti dicendomi di arrangiarmi con quello. Lo bagno, lo strizzo e mi inginocchio sul pavimento strofinandolo con le mani. Fortunatamente la cella è piccola e me la sbrigo in pochi minuti. Sento nel corridoio lo sferragliare di un carrello e una voce che annuncia: “Lattee! Caffèè!”. È il detenuto della cucina che porta la colazione. Dopo qualche minuto arriva alla mia cella. È un marocchino ed è gentile. Mi consegna un sacchetto di plastica traforata con tre panini, due arance e poi mi chiede se voglio il latte e il caffè. Rispondo che prendo solo il caffè, ma non ho il bicchiere. Lui si allontana e torna poco dopo con un bicchiere di plastica bianca, lo riempie di caffè con un mestolo e se ne va. Lo sorseggio lentamente. È una broda iperallungata e quasi senza zucchero, ma è calda e mi sembra buonissima. Ho appena terminato di bere e sto risciacquando il bicchiere che sento rumore di passi in corridoio e l’aprirsi e chiudersi di cancelli. Dopo qualche minuto arriva davanti alla mia porta una pattuglia di quattro-cinque agenti capeggiati da un ispettore.

L’agente in servizio nella sezione apre il cancello e la pattuglia entra nella cella, riempiendola. Io mi appiattisco contro la parete in fondo, mentre l’ispettore si guarda intorno con sospetto. Alla fine posa lo sguardo sul water e sbotta a urlare chiedendomi dove ho nascosto la tavoletta e il coperchio. Mi coglie di sorpresa. Ma, prima che possa giustificarmi in qualche modo, un agente bisbiglia all’orecchio dell’ispettore che in quella cella la tavoletta del cesso non c’è mai stata. L’ispettore grugnisce qualcosa ed esce seguito dal resto della pattuglia. È l’ispezione che viene effettuata ogni mattina alle otto in tutte le celle del carcere. Quando è in servizio quel particolare ispettore viene effettuata anche di notte, tra le due e le tre.

Il rituale mattutino non è ancora terminato. Sono passati solo pochi minuti quando davanti alla cella si ferma un altro carrello. È spinto da un’infermiera in camice bianco, è vicina ai sessanta e mi sorride con simpatia mentre mi consegna una manciata di pillole bianche e arancioni. Chiedo di cosa si tratta. Ma l’agente mi intima di ingoiarle immediatamente e senza discutere. Non discuto. Prendo il bicchiere lo riempio d’acqua e mando giù le pastiglie. La stessa scena si ripete per tre volte al giorno: alle otto di mattina, alle tredici e alle otto di sera. Impiegherò otto mesi a convincere il medico del carcere a togliermi la “terapia” che è stata stabilita per me senza nemmeno visitarmi. Ogni volta che la prego di eliminare le pastiglie dalla mia dieta lei (il medico titolare è una donna) mi guarda con costernazione e mi risponde che deve consultare il comandante. Gli psicofarmaci (chissà quali… non lo saprò mai) mi vengono propinati non per la mia salute, ma per la tranquillità delle guardie. Più volte mi chiederò in seguito come possa continuare a sussistere il diritto alla difesa quando l’imputato in custodia cautelare viene condotto agli interrogatori dei pubblici ministeri intontito da quantità industriali di tranquillanti più o meno potenti e privato del sonno.

A metà mattinata, davanti alla mia cella si ferma un ragazzo che regge una cassetta di plastica gialla piena di qualcosa su cui è poggiato un blocco per appunti. Ha circa trent’anni, è stempiato e ha un po’ di barbetta. Si presenta come S., è lo spesino del carcere, cioè il detenuto incaricato di raccogliere le ordinazioni e consegnare i generi che si possono acquistare tramite il “sopravvitto”. In pochi minuti mi fornisce le indicazioni generali sul funzionamento della spesa, anche se alla mia “testa libera” occorrerà qualche tempo per afferrarne tutti i principi. In ogni caso capisco che la spesa viene consegnata il martedì e il venerdì e che la mattina seguente, cioè il mercoledì e il sabato, devo consegnare l’ordinazione per la spesa successiva scritta su un foglio di carta o, meglio, su un apposito quaderno. Siccome sono arrivato sabato sera ho il diritto di avere un anticipo, cioè mi è concesso di fare l’ordinazione in ritardo. Ovviamente non ho né carta né penna, per cui devo dettargli l’ordinazione. Cerco di fare velocemente mente locale su quello che mi serve e inizio ordinando la schiuma da barba. Vengo subito bloccato: niente bombolette, solo tubetti di crema e il vecchio pennello. Allora ordino crema e pennello, dopobarba, rasoi usa e getta, una saponetta, spazzolino e dentifricio, e una stecca di Camel.

Lo spesino mi informa che le Camel non sono disponibili. Resto un momento interdetto, fumo le Camel da oltre quindici anni e so per esperienza che qualunque altro tipo di sigaretta mi provoca tosse e acidità di stomaco. Non ho scelta, devo ripiegare sulle Marlboro. S. prende nota di tutto e se ne va. È l’unico detenuto che può girare quasi liberamente in tutte le sezioni della casa circondariale. Si fermerà spesso davanti alla mia cella per fare quattro chiacchiere in amicizia, per offrire un consiglio, per chiedermi come è accaduto il fattaccio, per capire cosa intende fare il mio avvocato. Tre anni più tardi si scoprirà che, a tempo perso, faceva l’informatore per la procura e che registrava le confidenze degli arrestati con un registratorino nascosto nella sua cassetta di plastica.

La giornata trascorre come in un sogno, intervallato solo dal passaggio dal carrello del pranzo e della cena e da quello dell’infermeria che mi propina manciate di pastiglie multicolore. Nel frattempo faccio conoscenza con il mio dirimpettaio. Mentre sono seduto sulla branda a fissare il muro sento una voce che chiama: “Otto! Numero otto!”. Impiego qualche istante a realizzare che è il numero della mia cella e che la voce sta chiamando me. Dal mio cancello, che è situato in una rientranza del corridoio, posso vedere la porta di sole due celle dell’altro lato: la numero sei e la sette. È appunto dalla sette che un uomo sui 45 anni, portati molto male, sta chiamando il mio numero. Si chiama P. e ha ucciso sua madre a martellate. A suo dire stava cercando qualcosa che i cinesi le avevano innestato nel cervello. È evidente che non c’è con la testa. Non appena mi affaccio mi chiede balbettando se ho una sigaretta. Gli spiego che non me le fanno tenere in cella e che le ha l’agente nella scrivania. P. non si fa scoraggiare e chiama a gran voce il “superiore”. L’agente in servizio gli chiede cosa vuole e lui gli spiega che vuole una delle mie sigarette che sono nel cassetto della scrivania. L’agente mi guarda e mi chiede se glie la voglio dare. Alla mia risposta affermativa commenta che non mi conviene, ma io alzo le spalle. Solo più tardi capirò cosa intendeva dire, quando P. con la faccia incastrata nello spioncino del blindato non si farà problemi a chiamarmi a gran voce alle tre di notte per chiedermi una sigaretta. È malato di fumo.

L’unico suo pensiero è fumare. Sta tutto il giorno e gran parte della notte affacciato alla porta, pronto all’agguato per scroccare una sigaretta a chiunque passi. Quando va al gabinetto non chiude nemmeno la porta, continua la posta stando seduto sulla tazza del water e se in quel momento passa qualcuno balza in piedi, tira su mutande e calzoni senza nemmeno pulirsi e cerca di scroccare la sigaretta. Quando si deve arrendere al fatto che non è possibile scroccare più niente a nessuno chiede all’agente una domandina, l’arrotola e fuma quella, se non ci sono nemmeno domandine fuma la carta igienica (ecco perché non la usa…) e in quei momenti i suoi colpi di tosse intervallati da conati di vomito squassano il carcere dalle fondamenta fino al tetto.

Più tardi scoprirò che gode di una pensione di invalidità che riscuote mensilmente. Naturalmente la spende tutta esclusivamente in sigarette. All’inizio quando gli arrivava la spesa era “festa grande”. Però dopo che si è fumato una stecca di Alfa in meno di tre ore, facendo scattare l’allarme antincendio per la coltre di fumo che si sprigionava dalla sua cella, gli agenti gli sequestrano le sigarette e glie ne danno solo una all’ora. Troppo poco per una smania come la sua. A dire il vero in questo momento lo capisco bene. Nel timore di seccare le guardie, chiedo anche io una sigaretta all’ora. Ma è poco. Mi sembra di averla appena accesa ed è già terminata, lasciandomi con la voglia di accenderne immediatamente un’altra.

 

Appena mi fermo mi riappare davanti agli occhi il corpo di mia cognata riverso a terra in un lago di sangue. Morta. Morta per causa mia. Sono stato io… Ancora stento a crederlo. Mi guardo le mani e non le riconosco, mi sembrano due protesi, due oggetti estranei. È una sensazione sgradevole. Terribilmente sgradevole, nauseante… Ho sempre pensato che l’espressione “si sentiva le mani sporche di sangue” fosse una di quelle frasi fatte abusate a sproposito. Ma quello che provo guardandomi le mani è peggio, molto peggio. È come guardarsi allo specchio e vedere la faccia di uno sconosciuto. Una brutta faccia.. No, è peggio ancora, perché conoscevo le mie mani molto meglio del mio volto. Sono sempre state le mani che ho avuto davanti agli occhi in tutto il fare della mia vita, non la mia faccia. E ora non le riconosco più. Lo specchio è andato in frantumi e mi sembra un’impresa impossibile rimettere insieme i frammenti.

Al momento dell’arresto mi sono puntato la pistola alla tempia e ho tirato il grilletto. Il colpo non è partito, ma lo scatto del cane è risuonato come un gong che ha fatto vibrare fino all’ultima cellula del mio corpo. Un urlo di molecolare e primordiale di incredulità per quello che stavo facendo. Ma non sarà mai il suicidio fallito a turbare i miei sogni. Perché c’è di peggio.

 

I primi giorni li trascorro in un bizzarro stato d’animo di attesa. Sono in cella e aspetto. Non so cosa, ma mi sembra che qualcosa stia per accadere, debba accadere da un momento all’altro. Il lunedì vengo chiamato dall’educatrice e poi dalla psicologa. Parlo con entrambe per una mezz’ora. Il resto del tempo aspetto. Aspetto che qualcun altro mi chiami, aspetto non so che cosa. Ogni tanto l’agente infila la chiave nella serratura e io scatto in piedi pronto ad andare. Ma lui sta solo controllando che sia ben chiusa a doppia mandata e mi guarda con aria interrogativa. È un atteggiamento paranoico comune a tutti gli agenti di tutte le carceri. Ogni mezz’ora passano di cella in cella a controllare che siano ben chiuse. Con il tempo imparerò a ignorare questo insistente sferragliare di chiavi, ma per il momento continuo a sobbalzare. E aspetto. Aspetto perché non riesco ancora a rendermi conto che la mia è una condizione definitiva e non provvisoria, non comprendo che la mia nuove normalità è stare seduto su quella branda a fissare il muro.

Mi sono capitate troppe cose e troppo traumatiche e se la legge e io stesso non abbiamo pietà per quello che ho fatto, qualche altra parte di me cerca di proteggermi, impedendomi di prendere atto della realtà del mio stato troppo bruscamente. Intanto sto imparando qualcocosa che non sapevo: il carcere non è un luogo tranquillo e silenzioso. Tutt’altro. È un inferno di urla, richiami, cancelli che sbattono, serrature che sferragliano, carrelli che cigolano, gente che piange. Non c’è mai pace, nemmeno di notte. Ogni schianto di cancello, ogni chiave che entra in una serratura ogni rumore di passi mi fa sussultare. È un luogo che produce una cacofonia di rumori che a un orecchio non allenato sembrano tutti violenti, aggressivi. Ci vuole tempo per imparare a decifrarli, a ordinarli, a catalogarli e ad escluderli come rumore di fondo. Solo allora l’orecchio impara a individuare lo straordinario in mezzo al caos ordinario. Bisogna avere l’udito allenato per isolare dall’innocuo concerto di urla e porte che sbattono quel particolare urtarsi di tavoli e sgabelli che annuncia che in una cella hanno iniziato a suonarsele di santa ragione.

 

È da poco passato il carrello della terapia e ho appena ingollato una manciata di pastiglie multicolori quando l’agente mi dice che devo andare dal Gip. Quanto è passato dal mio arresto? Un giorno, due giorni, tre giorni? Mi muovo in un’atmosfera onirica, ricordo che la convalida dell’arresto deve avvenire entro cinque giorni, l’ho studiato per l’esame da giornalista. Ma non è passato tanto tempo. Non è ancora arrivato Natale. O sì? Prima di entrare nell’ufficio del carcere dove si terrà l’udienza mi viene concesso di parlare in privato con l’avvocato d’ufficio. Al termine dell’incontro mi spiega che chiederà gli arresti domiciliari. D’istinto gli dico di non farlo perché sto meglio in prigione. Nel momento in cui l’avvocato mi ha prospettato la possibilità di uscire mi sono reso conto che non potrei tollerare di incontrare la gente, gli amici, i miei genitori. Ho spezzato una vita umana, sono diventato un assassino, ho infranto il più sacro dei tabù: come potrei stare in loro presenza? Il confronto mi distruggerebbe. Il solo pensiero mi annichilisce. No, preferisco il conforto della cella. In prigione mi sento protetto, al sicuro, dagli altri e da me stesso. Se il procuratore sospettasse quanto mi terrorizza la sola idea, chiederebbe la scarcerazione immediata. In questo momento non potrei immaginare una punizione peggiore, meglio la morte…

L’udienza è incubo. Il giudice mi sembra attento e comprensivo, il pubblico ministero sorride compiaciuto come un gatto che ha appena ingoiato il canarino. Iniziano ad interrogarmi e mi accorgo di non riuscire a pensare con chiarezza. Non riesco a raccontare quello che è accaduto. Tutti i miei ricordi sembrano tessere di tanti puzzle diversi che non riesco a ricomporre. Ogni tanto me ne torna uno in mente, ma non riesco a collegarlo con il resto in un insieme logico. Il pubblico ministero mi riferisce la versione di altri testimoni. Non ricordo assolutamente i fatti che mi vengono raccontati, ma rispondo: “Se lo hanno detto loro…”. Se mi dicessero che qualcuno mi ha accusato di aver sparato a Kennedy risponderei la stessa cosa: “Se lo ha detto lui… deve essere vero”. Al processo pagherò duramente questa leggerezza, non mia, ma del mio avvocato che ha permesso un confronto al quale non sono assolutamente in grado di reggere. Ma al momento non me ne frega niente, anzi, in qualche modo soddisfo le mie pulsioni autodistruttive. Al processo non ci penso per nulla. Sono convinto che non ci arriverò. Voglio solo che l’interrogatorio finisca. Sto male, chiedo più volte di andare in bagno. Voglio solo che si tolgano dai piedi, che mi lascino tornare nella mia cella, nella mia solitudine. Finalmente l’udienza termina. Il Gip, con quella che a me pare un’aria dispiaciuta mi comunica che deve confermare la mia custodia cautelare in carcere. Lo ringrazio sollevato. Finalmente posso tornare nella pace della mia cella.

 

È Natale. Lo capisco perché più o meno tutti gli agenti in servizio fanno una capatina al reparto di isolamento, si fermano davanti alla cella di P. e con la voce cadenzata gli dicono: “Buon Natale, numero sette! Buon Natale!”. Stanno scimmiottando uno spot pubblicitario ambientato in una prigione messicana che è in gran voga. Terminato lo spettacolino se ne vanno sghignazzando a gran voce. P. non si scompone, per lui qualsiasi persona si fermi davanti alla cella, qualsiasi cosa dica, è solo un’occasione per scroccare una sigaretta. O almeno per provarci. Si capisce che è Natale anche dal fatto che a pranzo è stata distribuita una razione di arachidi. Per il resto è una giornata come le altre. Interminabile. Sento provenire dalle altre celle il rumore dei televisori. Ma nella mia cella non c’è e non ho neppure niente dal leggere. È la prima volta da quando ho sei anni che non ho nulla da leggere e non posso averlo. Sono in galera! Non sono libero! È il primo flash di consapevolezza della mia nuova condizione. Arrivano così… un lampo che ti lascia senza fiato e in un istante ti fa percepire il vero significato del cancello a doppia mandata che ti separa dal resto del mondo. Un significato che può essere solo “visto, tastato”, non spiegato a parole.

Riprendo a respirare e cerco di non preoccuparmi, di non farmi schiacciare dalla nuova consapevolezza del mio stato. Ho altro a cui pensare, queste sono cose che non mi riguardano. Lo spesino mi ha portato la roba che avevo ordinato, ma mi fanno tenere tutto fuori dalla cella. Per lavarmi i denti o farmi la barba devo chiedere il necessario all’agente che rimane nei pressi del cancello finché non ho terminato e riconsegnato tutto. Ma non esistono ostacoli insormontabili. Oggi sono uscito per la prima volta all’ora d’aria che ci è concessa e ho parlato con P. Gli ho promesso un pacchetto intero di sigarette, in cambio domani mi porterà all’aria uno dei suoi rasoi…