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Sono in carcere da sette anni e mezzo
E da sette anni e mezzo non vedo mio figlio
di Graziano Scialpi
Sono in carcere da sette anni e mezzo. Da sette anni e mezzo non vedo mio figlio. In tutti questi anni non mi sono mai arreso e ho sempre continuato a lottare per poterlo incontrare. Ma a quanto pare in Italia le sentenze dei Tribunali per i minori sono drasticamente efficaci solo quando si tratta di impedire a un padre di vedere i propri figli, quando invece stabiliscono il diritto di incontro non valgono nemmeno la carta su cui sono scritte. Ho vinto tutte le battaglie giudiziarie, nessuna delle quali si è svolta nemmeno con un centesimo della rapidità con cui mi è stata levata la patria potestà, però non è servito a nulla, perderò la guerra. So già quale sarà l’esito finale. Mi verrà detto: “Lei ha ragione, però ormai è passato troppo tempo, il bambino è cresciuto e per lui sarebbe traumatizzante”, e questa sarà la sentenza definitiva, quella “più comoda” per tutti, quella che verrà fatta rispettare senza tollerare deroghe. Ma in questo non c’è niente di nuovo sotto il sole: solo le mamme sono indispensabili, dai tempi di San Giuseppe il padre è solo un optional facilmente intercambiabile, e con l’avvento dell’inseminazione artificiale è stato finalmente ridimensionato al suo ruolo di semplice donatore di Dna. Il nuovo “amico” di mammà può assolvere altrettanto brillantemente il compito, quindi arrivederci e si faccia una ragione delle sue pretese assurde e campate in aria. Quando sono finito dentro, mio figlio aveva due anni e stava appena iniziando a parlare. Era un cambiamento importante che suscitava in me sentimenti ambivalenti. Ho sempre amato la parola, il racconto, e aspettavo con trepidazione il momento in cui avrei potuto iniziare a leggergli le fiabe, ma soprattutto non vedevo l’ora di misurare e misurarmi con la sua curiosità, in quel meraviglioso momento della vita che rappresenta la fase dei “perché?”. Da un altro punto di vista però temevo che, con l’avvento del dialogo, sarebbe andata persa una comunicazione fatta di sorrisi, sguardi, gesti ed espressioni che avevo scoperto con lui e non avrei mai creduto potesse essere così profonda, così autentica. Di tutto questo non ho potuto avere nemmeno le briciole. Per qualche tempo ho cercato di mantenere un contatto con lui inviandogli delle cartoline che, ho saputo, si portava dietro tutto il giorno, mostrandole a tutti e consumandole a furia di stringerle. Ma l’accurata “damnatio memoriae” operata nei miei confronti esigeva che questi residui focolai emozionali venissero estinti. Così hanno smesso di consegnargliele e io ho smesso di spedirgliele, giusto per eliminare il disturbo di doverle gettare nella spazzatura. Adesso mio figlio ha nove anni. Quel bimbetto dalla testa rotonda i capelli arruffati e gli occhi vivaci che si svegliava con un sorriso radioso e mi saltava sulla pancia, divertendosi un mondo alle mie finte lamentele, non c’è più, esiste solo nei miei ricordi. Adesso non solo sa parlare, ma anche leggere e scrivere. E io non so niente di lui. Non so se gli piace andare a scuola. Non so se ha ereditato almeno parte del mio amore per la lettura. Non so cosa gli piace e cosa non gli piace. Non so cosa lo fa ridere e se la sua risata è ancora quella squillante esplosione di gioia di quando era piccolo. Per qualche tempo ho potuto seguirne parte dei progressi attraverso gli occhi dei miei genitori, ai quali era concesso di vederlo per un’ora, una volta al mese. Ma ben presto anche a loro è stato impedito di incontrarlo. Di lui possiedo solo un paio di foto. Un ragazzino di quattro anni che osserva l’obiettivo con uno sguardo triste. I primi anni ho sofferto in modo atroce per questa separazione. Soprattutto di notte, quando sognavo che non riuscivo a raggiungerlo o che qualcuno me lo strappava via. Poi qualcosa si è lacerato, lasciando solo una grossa cicatrice. Adesso non provo nulla e so che non soffrirò mai più nella mia vita. Non è possibile strapparmi un figlio una seconda volta. Ancora adesso, di tanto in tanto, lo incontro ancora nei sogni. Ma ora non vedo più il bimbetto sorridente che ho tenuto tra le braccia e a cui ho dato il biberon. È un ragazzino che non conosco, con l’aria triste e accusatoria e io mi affanno nel vano tentativo di spiegargli tutto, di chiedergli scusa, di convincerlo che non è colpa sua se l’ho abbandonato, che gli ho sempre voluto bene, che non l’ho mai dimenticato, che è la cosa più importante della mia vita. Ma non ci riesco mai e lui mi respinge. E io mi sveglio in preda a un profondo disagio che mi accompagna per giorni. Per fortuna sono sogni che faccio di rado. |
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