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Colpiscine cento per non rieducarne nemmeno uno
In carcere quando uno sbaglia a pagare sono sempre molti
Di Graziano Scialpi, dicembre 2003
Mao Ze Dong sosteneva che era necessario "colpirne uno per educarne cento". In carcere la prassi è di colpirne cento per non rieducarne nemmeno uno. In barba a tutti i principi che stabiliscono che la responsabilità (in particolare quella penale) è individuale, che vige il principio della presunzione di innocenza, che nel dubbio bisogna decidere in favore del reo o presunto tale, perché è sempre preferibile lasciar scappare cento colpevoli piuttosto che punire ingiustamente un solo innocente, in carcere quando uno sbaglia a pagare sono sempre molti. Il numero può variare da quello minimo dei compagni di cella, a quello massimo dell’intera popolazione del penitenziario, passando attraverso le misure intermedie: tutti quelli che si trovavano in saletta, o nel cortile dell’aria, o l’intera sezione o i compagni di lavoro.
Uno spesino viene sorpreso a fare la cresta? Tutti gli spesini devono fare in fretta e furia il sacco e vengono spediti ai quattro angoli d’Italia. Un imbecille "sniffa" il gas delle bombolette? In tutto il carcere vengono sequestrate le bombolette di scorta e ci si ritrova senza fuoco a metà cottura della pasta. Qualcuno viene sorpreso mentre cerca di introdurre droga in carcere? Allora tutti i detenuti e i loro parenti vengono sottoposti a controlli umilianti ed estenuanti, i parenti poi vengono costretti ad attese di tre ore per riuscire a fare un’ora di colloquio e tutti i reclusi si vedono improvvisamente restringere in modo drastico i già scarsi generi che possono ricevere con i pacchi. Non importa che dai loro dossier risulti a chiare lettere che sono dentro per tutt’altro genere di reati e che non hanno mai avuto a che fare con la droga: se uno si è fatto una canna, tutti devono pagargli la fumata. L’aspetto più divertente dell’intera faccenda è che il responsabile magari è vicino al fine pena, se ne frega di tutto e esce in libertà dopo qualche mese, mentre gli altri continuano a subire le conseguenze della sua violazione dei regolamenti per anni. Ciò è tanto più vero in questi ultimi tempi quando, vuoi a causa del sovraffollamento, vuoi a causa della ristrutturazione di numerose Case Circondariali, detenuti che devono scontare venti o trent’anni di galera, persone che cercano di inventarsi una parvenza di vita regolare e di progettualità, si vedono costretti a condividere la cella con persone che hanno dei fine pena di due-tre mesi. Disperati il cui unico pensiero è che il secchio di psicofarmaci che bevono tre volte al giorno sia colmo fino all’orlo e non ne manchi neppure una goccia. Gente il cui unico scopo è trascinarsi il più storditi possibile per le settimane che mancano alla liberazione e a cui non frega nulla della pulizia, dell’ordine, del rispetto per i compagni di prigionia che in quella cella che loro sporcano senza pulire devono trascorrere il decimo o undicesimo Natale. Ma torniamo alla pratica della punizione collettiva. La prima cosa che viene da chiedersi è: che senso ha? In realtà oggi non ha alcun senso perché esacerba gli animi, non aumenta certo il rispetto né verso le Istituzioni né verso le regole e non spinge nemmeno i detenuti a controllare i loro compagni di prigionia e a segnalarne i comportamenti irregolari (su questo bisognerebbe scrivere un articolo a parte). Ma se è così inutile e forse persino dannosa perché viene praticata? La risposta a questa domanda è molto semplice: la repressione collettiva per lo sbaglio di un singolo viene praticata perché il carcere è un’entità molto pesante, un grave direbbe Galileo, che procede per inerzia con l’abbrivio di una superpetroliera. La repressione collettiva è un fossile del carcere pre-Gozzini. Risale all’epoca in cui non esistevano liberazione anticipata, permessi premio, misure alternative. Risale all’epoca in cui una persona condannata a vent’anni non poteva sperare in sconti di pena. Risale all’epoca in cui l’unica Legge del carcere era la violenza. Non avendo altri mezzi di controllo, quando accadeva qualcosa di grave, le Direzioni potevano applicare restrizioni punitive all’intero carcere. In questo caso le alternative erano due: o gli altri carcerati condividevano le motivazioni del loro compagno e quindi subivano la punizione senza fiatare, oppure non le condividevano e allora il responsabile della punizione collettiva avrebbe passato un quarto d’ora veramente brutto. Ma ciò che era più importante è che la pratica della punizione e della repressione collettiva costringeva i carcerati a operare sui loro compagni di prigionia un controllo preventivo che gli agenti e la direzione non erano in grado di esercitare.
Oggi però il carcere è cambiato profondamente. I detenuti, anche gli ergastolani, hanno una speranza di uscire. Se la condotta è buona, c’è la liberazione anticipata. Se la condotta è buona e il detenuto ha seguito un percorso valido, può aspirare alle misure alternative. È impensabile che i detenuti di oggi esercitino una forma di controllo sui loro compagni di prigionia, specialmente su quelli con le pene più brevi che della buona condotta se ne fregano altamente. Dare uno schiaffo a un altro detenuto, anche se questo sta sbagliando a discapito di tutti quanti, può costare molto caro. Oggi come oggi allora la punizione collettiva, anche se mascherata dalle "ragioni di sicurezza", è un assurdo che non ha più ragione di essere, anzi, è antitetica al carattere rieducativo che dovrebbe avere la pena. Tanto più che leggi e regolamenti penitenziari prescrivono che i detenuti debbano essere separati per tipologia di reato, di pena da scontare e anche di personalità. Ma questo non viene fatto. Si mescolano i tossicodipendenti con pene brevissime con detenuti condannati a trent’anni o all’ergastolo, e poi tutti vengono trattati con lo stesso metro anche se i comportamenti sono diversissimi. Uno sfoggio di muscoli che in realtà è un sintomo della debolezza di una istituzione, che si dimostra per lo più incapace non di premiare, ma semplicemente di tutelare la maggioranza dei detenuti che rispettano le regole. La soluzione? Non c’è, forse, nessuna soluzione. Il carcere è, appunto, una struttura pesantissima che avanza per inerzia con l’abbrivio di una superpetroliera. E alla fine, nonostante la Gozzini, la violenza ha assunto altri volti e altre sembianze, e finisce che per governare la vita dei detenuti si usano sempre altri detenuti.
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