Il punto di vista del nostro “vignettista per forza”

Fare in modo che il carcere, se ci deve essere, abbia un senso

Perché, così come è ora, il carcere genera esso stesso vittime, ed è da questo dato di fatto che bisogna partire

 

di Graziano Scialpi, giugno 2008

 

Sono passati dieci anni eppure ricordo la prima volta che ho avuto tra le mani Ristretti Orizzonti come fosse ieri. La memoria in carcere tende a comportarsi ancora più stranamente del solito. Forse saranno le giornate inesorabilmente uguali a far sì che ogni cosa che esce minimamente dall’ordinario, in assenza di qualsivoglia “concorrenza”, si fissi senza ostacoli negli archivi del nostro cervello… forse sarà qualcos’altro… fatto sta che quell’episodio si è tatuato indelebilmente nella mia mente.

Come dicevo era una qualsiasi mattina di galera, quando l’agente in servizio nella sezione mi disse che dovevo andare dall’educatrice. Non avevo chiesto io l’incontro, ma all’epoca (1998) il carcere non era ancora così sovraffollato e, anche se oggi pare impossibile, incontrare e parlare con gli educatori era una cosa normale e frequente. Il massimo che ho dovuto attendere tra la “domandina” di colloquio e l’incontro è stato una settimana. E a volte mi chiamavano loro, così… giusto per sapere come andava e se c’erano problemi. Per cui mi diressi verso l’ufficio senza patemi d’animo. Mi ero appena accomodato sulla sedia davanti alla scrivania, quando la mia educatrice, la dottoressa Bonuomo, mi porse un giornale e mi disse più o meno: “A Padova i detenuti hanno fatto questo giornale. Mi sembra una buona idea. Lo guardi, se lo studi. Lei è un giornalista e magari riusciamo a fare un giornale anche noi”. Quindi mi congedò e io me ne tornai in cella stringendo tra le mani il primo numero di Ristretti Orizzonti.

Se dicessi che ho letto avidamente tutti gli articoli e che me li ricordo benissimo mentirei. L’unica cosa che mi colpì è che uno dei redattori si chiamava Morelli. Lo ricordo perché anche uno dei capiservizio del giornale “regolare” per cui avevo lavorato si chiamava Morelli e mi chiedevo se per caso tra i due ci fosse una qualche parentela. Per il resto, lo ammetto, non ricordo niente, e ricordo pochissimo anche dei numeri successivi che l’educatrice ha continuato a passarmi con regolarità. Che posso dire? Ero “fresco” di galera. O meglio, ero dentro da più di un anno, ma il primo anno lo avevo passato in isolamento, una “dimensione” a sé stante. E solo da poco ero passato nella sezione “comuni”, cominciando a confrontarmi con la vera vita del carcere e le sue problematiche, tipo la convivenza con gli altri galeotti, per citarne solo una. Inoltre ero nel pieno dei processi e stavo facendo i conti con il mio reato e la nuova esistenza che mi si prospettava davanti. Diciamo che, all’epoca, avevo altro per la testa e che le problematiche trattate da detenuti definitivi con alle spalle parecchia galera, erano lontane dal mio ancora ristretto orizzonte.

Comunque ho continuato a leggerlo, così come è andata avanti l’ipotesi di fare un giornale anche nella Casa Circondariale di Trieste. Dopo circa un anno, venni incaricato dalla dottoressa Bonuomo di stendere un progetto da sottoporre al ministero. Il progetto venne approvato e furono stanziati i fondi necessari. Nell’estate del 2000, la direzione acquistò i computer, le stampanti e il software necessario alla grafica e all’impaginazione. Fu individuato un gruppo di detenuti che avrebbe costituito il nucleo della redazione e venne organizzata una serie di corsi di scrittura creativa, scrittura giornalistica, grafica e altri propedeutici alla realizzazione di un giornale. Venne escogitato anche il titolo provvisorio: “Captivi” e si cominciarono a scrivere i primi articoli d’esercitazione. Di questi ricordo bene i temi. Era l’estate del 2000 e il nuovo millennio aveva portato come regalo il sovraffollamento. Gli ospiti del carcere di Trieste, in poche settimane, passarono da 80 a oltre 200, sconvolgendo la vita dell’istituto. Si ricominciò a parlare di affettività e relative “celle a luci rosse”. Il Papa chiese al Parlamento un gesto di clemenza. E ricordo bene i politici che, a quelle parole, non applaudirono, ma girarono la faccia con la stessa aria disgustata che avrebbero rivolto a un lavavetri che avesse osato disturbarli al semaforo. E fu proprio a Trieste, quell’estate del 2000, che scoccò la scintilla della protesta che in pochi giorni si estese a gran parte delle galere italiane, con battiture delle sbarre, scioperi della fame e qualche incendio per fortuna senza conseguenze… Ed era su questi temi che scrivemmo i primi articoli di esercitazione. Avevamo persino trovato un bravo disegnatore che sarebbe stato in grado di tradurre graficamente l’idea per qualche vignetta. Insomma, quel primo numero di Ristretti aveva messo in moto un meccanismo incredibile, incredibile per la realtà di un piccolo carcere di periferia.

Era ormai tutto pronto, stavamo per partire con il primo numero, ma, invece del giornale a partire fui io. Era il 3 gennaio del 2001 (questo lo ricordo perché era il mio compleanno) quando preparai in fretta e furia armi e bagagli (be’, diciamo solo i bagagli) per un trasferimento urgente nel temutissimo Tolmezzo, che aveva una pessima fama di carcere punitivo. Un effetto del sovraffollamento. Avevo fatto il primo grado e l’appello. La Cassazione era a Roma, quindi ero tra quelli che si potevano spostare senza problemi.

 

Ricordo tutte le discussioni e tutte le litigate, e ricordo anche cosa è nato da quelle litigate

 

Durante l’anno trascorso a Tolmezzo (che alla prova dei fatti non era poi così terribile) ho fatto un po’ di tutto: ho seguito un bellissimo corso di ortofloricultura, ho ottenuto un diploma di allevatore di bachi da seta, per sfatare il mito che l’uomo bianco, e io in particolare, non ha senso del ritmo, avevo iniziato persino un corso da percussionista. Però non leggevo più Ristretti Orizzonti, perché non c’era un’educatrice a passarmelo e non avevo i soldi per abbonarmi (né sapevo che me lo avrebbero spedito anche gratis). In compenso fu il periodo in cui iniziai a riflettere in modo serio sulla vita in carcere e il suo senso.

Non appena la Cassazione confermò la condanna, chiesi e ottenni il trasferimento a Padova.

Ricordo bene anche il mio arrivo a Padova. Venni destinato al terzo piano e in pochi minuti scoprii che il mio vicino di cella era Nicola Sansonna, membro fondatore di Ristretti Orizzonti. La sera stessa parlai con lui, gli spiegai che da libero ero giornalista e che mi sarebbe piaciuto far parte della redazione di Ristretti. Con la sua “raccomandazione” saltai la solita trafila per entrare in redazione: domandina, mesi di attesa, colloquio con Ornella, altri mesi di attesa ed eventuale “assunzione”. Con la tipica faccia di bronzo di ogni raccomandato, in meno di un mese ero diventato redattore di Ristretti Orizzonti, uno dei “privilegiati”.

Non posso parlare dei 10 anni di Ristretti. Io ne faccio parte “solo” dal 2001. Né parlerò di come fui trasformato d’imperio (e contro la mia volontà) in vignettista. Però ricordo quanta gente, quanti compagni ho visto passare in quella redazione, persone di tutte le razze, di tutte le età, con tante storie diverse e simili alle spalle. Nel tempo alcuni sono stati trasferiti, altri hanno terminato la loro pena e sono tornati liberi, molti hanno ottenuto misure alternative al carcere. Parecchi hanno messo la testa a posto, qualcuno c’è ricascato, alcuni sono morti… Alcuni, purtroppo, sono ancora lì, che, nonostante il comportamento esemplare, aspettano da anni e anni l’occasione di mettere il naso fuori con un permesso premio.

Ricordo tutte le discussioni e tutte le litigate (quante litigate) e ricordo anche cosa è nato da quelle litigate. Per fare un solo esempio, il convegno sulle vittime dei reati del 23 maggio scorso è nato da una furibonda litigata circa quattro anni fa. Era appena arrivato in redazione un documento del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria che parlava di Giustizia riparativa nei confronti delle vittime e le reazioni furono tutt’altro che leggere. I primi commenti furono del tipo: “Ma che diavolo vogliono ancora da me queste vittime? Non gli bastano gli anni di galera che sto facendo? Non gli bastano le sofferenze che sto passando? E poi come dovrei riparare? Mi presento a casa della persona e le dico: mi scusi, le ho ammazzato il marito, le va bene se le falcio il giardino e le lavo la macchina?”. Cinismo? No, è solo il punto di partenza da cui dovrà iniziare chiunque voglia affrontare seriamente un argomento così complesso e delicato come il rapporto tra vittime e autori di reato. Chiunque voglia intraprendere un cammino del genere per prima cosa scoprirà che il carcere genera esso stesso vittime e che è da questo dato di fatto che bisogna partire. Da questo siamo partiti, su questo siamo tornati e ritornati, e abbiamo discusso, litigato e rilitigato. Grazie ad altri progetti, come quello con le scuole, abbiamo incontrato e ci siamo confrontati con le prime vittime. Poi siamo andati a cercarle e a pregarle di incontrarci in redazione. E alla fine siamo approdati al convegno con le vittime dei reati come protagonisti. Ora, a furia di discussioni e litigate, si tratterà di trasformare questo convegno nel punto di partenza di un progetto ancora più ampio e approfondito e, soprattutto, di non farlo rimanere un’eccezione locale, ma estenderlo a quanti più istituti di pena possibile, perché il carcere, se ci deve essere, abbia un senso. A Ristretti forse lo abbiamo scoperto prima di tutti gli altri e il successo del convegno “Sto imparando a non odiare” ne è la prova più evidente.