Il carcere in Italia spesso non si limita a non rieducare, ma crea delle ulteriori vittime

Un solo confronto, un solo faccia a faccia tra vittima e autore di reato, ha una valenza “rieducativa” che non avrà mai una mera carcerazione, di qualsiasi durata sia

 

di Graziano Scialpi, febbraio 2008

 

I mostri bisogna affrontarli. È il solo modo di sconfiggerli. Sia che si tratti di mostri “altri”, di esseri che hanno fatto o possono fare del male, sia che alberghino dentro di noi. Mostri più insidiosi, che ci accompagnano in ogni momento della nostra vita e non smettono mai di perseguitarci. A volte sonnecchiano, a volte dormono. Ma sono sempre lì, pronti a risvegliarsi. Mettere a confronto autori e vittime di reati significa affrontare i mostri. Perché ogni reato genera mostri, tanti mostri. E purtroppo le risposte giuridiche e sociali a questo problema sono pressoché inesistenti. La legge si limita a prendere il “mostro” più ovvio e appariscente, l’autore del reato, e a toglierlo dalle strade per un periodo più o meno lungo. Ma di tutti gli altri mostri, quelli che fanno i danni peggiori e più a lungo, non se ne occupa nessuno. Nessuno li affronta, perlopiù si preferisce ignorarne persino l’esistenza.

Sempre più spesso negli ultimi tempi si sente lamentare che lo Stato dimentica le vittime dei reati, che non fa nulla per loro, che si “preoccupa” solo dei criminali. Indubbiamente c’è del vero in queste affermazioni. Ma le risposte a questo problema che vengono avanzate ormai da tutte le forze politiche, senza o con minime distinzioni, non sono vere risposte. Proporre “pene più severe”, “tolleranza zero”, “certezza della pena” e “risarcimenti economici” significa non aver compreso i nodi cruciali della questione. Significa voler ridurre le vittime a personaggi ai quali è solo l’impossibilità di compiere una vendetta spietata a togliere il sonno, significa voler quantificare e monetizzare il danno subito. E il fatto che anche gli stessi criminali tendano a quantificare e a monetizzare il danno che hanno arrecato, per minimizzarne la reale portata morale, induce a un’analogia inquietante.

In questi ultimi anni, grazie al progetto “Il carcere entra a scuola”, abbiamo potuto incontrare e confrontarci con centinaia di ragazzi e docenti. Spesso è capitato che qualche ragazzo, e a volte anche qualche docente, avesse subito dei reati e ci hanno raccontato a fatica la loro esperienza e il loro vissuto. Ancora più significativi sono stati i confronti con persone quali Olga D’Antona, vedova di Massimo D’Antona, giurista ucciso dalle Brigate Rosse, che ci hanno permesso di comprendere, quasi di toccare con mano lo sconquasso che subisce la vita di una persona a cui è stata assassinata una persona cara. Queste esperienze ci hanno portato alla conclusione che un solo confronto del genere, un solo faccia a faccia tra vittima e autore di reato, ha una valenza “rieducativa” che non avrà mai una mera carcerazione, di qualsiasi durata sia. Ed è mia personale convinzione che questi confronti abbiano fatto bene anche a molte delle vittime che, forse per la prima volta, hanno potuto affrontare i mostri che le perseguitavano. Perché, senza prendere in esame i casi estremi, quando una persona subisce un furto, uno scippo, una rapina, il più delle volte quello economico è il danno minore. Magari la questione fosse così semplice. Hai subito il furto di 500 euro? Bene, ti restituisco i 500 euro e tutto torna come prima. Ma le cose non stanno così. Il vero danno è la paura che si impadronisce della vittima e non la abbandona più, è il senso di insicurezza che da allora in poi la accompagna in ogni momento della giornata, è la perdita della fiducia, è la violazione dell’intimità e del privato è un peggioramento permanente della qualità della vita. È un mostro che la accompagna in ogni momento della giornata. In molti paesi europei, come in Gran Bretagna, esistono strutture, sia pubbliche che di volontariato, dedicate all’assistenza alle vittime di reati. Strutture dove la persona che ha subito il reato può incontrare psicologi specializzati e gruppi di sostegno, spesso composti da altre vittime che hanno vissuto e superato esperienze simili, che la aiutano a elaborare il trauma, ad affrontare i mostri e a sconfiggerli. E sembra che funzionino perché dopo un primo incontro, organizzato da amici o spesso dagli stessi poliziotti che hanno raccolto la denuncia o sono intervenuti sul luogo del reato, la maggior parte delle persone ci ritorna volontariamente perché ne trae conforto. Da noi, purtroppo, non solo pressoché non esistono strutture simili, ma non si sentono nemmeno proposte in questo senso. Eppure sono personalmente convinto che il semplice sapere che il delinquente ha subito una condanna esemplare non allevi le sofferenze della sua vittima, che ci sarebbe bisogno di ben altro aiuto per consentirle di tornare a una vita accettabile, se non normale.

 

Il detenuto medio non solo non pensa alle vittime dei propri reati, ma si sente lui stesso una vittima

 

Un passo fondamentale, a mio parere, sarebbe anche favorire il confronto tra le vittime e gli autori dei reati. Perché, nella mia ormai decennale esperienza carceraria, sono giunto alla ferma conclusione che, salvo rare eccezioni, solo questo tipo di confronto può portare a una vera svolta, a quella “rieducazione” auspicata dall’art. 27 della Costituzione.

Se questo confronto può essere utile alla vittima del reato, per il detenuto diventa un passo quasi irrinunciabile. Perché, diciamocelo chiaramente, alla maggioranza di noi detenuti delle vittime non importa nulla. Non ci pensiamo proprio per niente. I pochi che riflettono sulle conseguenze che i loro reati hanno avuto per le altre persone, lo fanno o perché hanno la fortuna di avere strumenti intellettuali e culturali superiori a quelli della media dei reclusi o perché, nella lotteria dei penitenziari italiani, sono capitati in un carcere dove sono stati stimolati e aiutati a intraprendere questo non facile percorso. Ma si tratta di eccezioni, non della regola. In questo senso, il carcere in Italia rappresenta un fallimento quasi totale. Non si limita a non rieducare, ma crea delle ulteriori vittime. Questa è la realtà dei fatti: il detenuto medio non solo non pensa alle vittime dei propri reati, ma si sente lui stesso una vittima. E questo non accade perché si tratta di criminali spietati, senza cuore ed egoisti, ma semplicemente perché i reclusi sono esseri umani come gli altri.

Al momento attuale, una persona che commette un reato finisce in carcere a scontare una pena, spesso ad anni di distanza dalla commissione del reato. Alla privazione della libertà, già di per sé pesante, si aggiungono una miriade di altre occasioni di sofferenza: l’inattività forzata a causa della mancanza di lavoro e di opportunità di impiegare il tempo in modo costruttivo; problemi economici; il fatto di dover pesare sulla famiglia; la perdita del lavoro, se c’era, e spesso della casa, con le conseguenti preoccupazioni sul ritorno in libertà; le difficoltà di mantenere rapporti significativi con i propri cari e soprattutto con i figli; gli ostacoli per fare una semplice telefonata a casa; il condividere pochi metri quadri con sconosciuti che non si sono scelti; i piagnistei sempre uguali che si sentono ripetere ogni giorno dagli altri detenuti; difficoltà per curare le malattie. A questo si aggiunga che le figure, come educatori e psicologi, istituzionalmente preposte a stimolare tali riflessioni, sono perennemente sottorganico e riescono a stento a tamponare le emergenze quotidiane. Inoltre educatori e psicologi del carcere sono figure “anomale”: fanno parte dell’istituzione, decidono del futuro del recluso, non sono tenuti al segreto professionale. Di norma il detenuto li vede come “nemici”, non come professionisti con cui aprirsi senza riserve.

Data questa situazione è materialmente impossibile che il detenuto non finisca per sentirsi profondamente come una vittima. Ed è da questo dato di fatto che bisognerebbe partire in ogni tentativo di rieducazione e risocializzazione. Anche il detenuto è una vittima e il modo più efficace per costringerlo a rivedere le proprie azioni è metterlo di fronte alle vittime vere. Perché, come dicevo, il criminale, il recluso è innanzitutto un essere umano e funziona da essere umano. Di norma, per compiere reati, “spersonalizza” la vittima. Non prende in considerazione la persona che c’è dietro e che danneggia, ma solo il bottino. Un po’ come i medici negli ospedali troppo spesso non trattano pazienti, ma malattie, per cui il sig. Mario Rossi cessa di essere tale e diventa un “femore fratturato” o un “fegato cirrotico”. Così lo scippatore ignora l’anziana, vede solo la borsetta. La conseguenza è che spesso in carcere si tende a monetizzare il danno e si sentono ragionamenti del tipo: “E che sarà mai? Gli avrò portato via 300 euro in tutto… devo essere perseguitato in questo modo per 300 euro?”.

Ma quando queste stesse persone si trovano di fronte la ragazza in lacrime che gli racconta come, dopo aver trovato i ladri in casa, ora ha paura di tutto e non si sente più al sicuro nemmeno nella propria abitazione, tutto cambia. Non sono più “solo 300 euro”, è una ragazza terrorizzata che potrebbe essere una figlia o una sorella. È una vita cambiata in peggio, per sempre. E queste sono cose che non lasciano indifferenti, perché anche i reclusi sono persone umane, capaci di affetti, con madri, padri, mogli e figli a cui vogliono bene. Se il recluso medio non esita a impadronirsi dei soldi altrui, difficilmente danneggerebbe di proposito e in modo così grave quella ragazza nella quale vede sua figlia. Quando la vittima si trasforma da “bottino” a essere umano tutto cambia e inizia la vera riflessione. E, mi permetto di aggiungere, quando il delinquente, il recluso, il criminale, assume le forme di un essere umano, tutto cambia. Il mostro non è più così mostruoso e lo si può affrontare e sconfiggere più facilmente.