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Un ospedale pieno di malati abbandonati a se stessi senza medici né infermieri Questa è la galera oggi. E la lezione da trarre dall’esperienza dell’indulto è che i detenuti escono dal carcere ogni giorno, anche senza i provvedimenti di clemenza, e spesso escono incattiviti dalla detenzione
di Graziano Scialpi, settembre 2006
L’Italia è un paese che vive di emergenze. Non fa nulla per prevederle ed evitarle. Le attende con ansia e trepidazione e, quando finalmente si verificano, cerca di porvi qualche rimedio raffazzonato. Almeno nel caso dell’indulto, tuttavia, l’emergenza che si è creata potrebbe rivelarsi utile, sempre che si sia capaci di trarne gli insegnamenti giusti. I migliaia di detenuti che sono stati scaraventati sulle nostre strade con i loro pochi averi custoditi in un sacchetto per le immondizie, senza un soldo in tasca, senza lavoro, spesso senza una famiglia e una casa a cui tornare sono balzati agli onori delle cronache solo perché lo stillicidio quotidiano di questi “ritorni in società” è stato concentrato in una piena durata pochi giorni. All’improvviso le città italiane sono state invase da una massa di disperati che non sapevano né come mangiare, né dove andare a dormire e le istituzioni si sono scoperte in grave difficoltà nell’affrontare il problema. I mass media, al solito, si sono concentrati sui pochi casi eccezionali di recidiva immediata, facendo leva sulle paure della gente. Quasi nessuno si è posto il problema di come mai questa massa di disperati, tutti sotto i tre anni di pena e quindi ampiamente nei termini previsti dalla legge, non usufruiva di quei famigerati “benefici automatici”, come spesso li definisce la stampa, quali permessi e semilibertà, che avrebbero consentito loro di prepararsi gradualmente al ritorno in libertà, di lavorare, di avere qualche risparmio da parte, stabilire qualche contatto, di trovare qualche punto di riferimento per reinserirsi in modo meno traumatico. Ma il punto su cui vorrei portare l’attenzione è un altro, e lo farò partendo da un esempio molto meno eclatante di quello che potrebbe sembrare. I primi giorni di agosto una notizia ha occupato le prime pagine di tutti i giornali e dei telegiornali: a San Daniele del Friuli un uomo, appena uscito dal carcere grazie all’indulto, è stato arrestato per aver cercato di strangolare la moglie. L’inespresso sottinteso della notizia era: la colpa dell’increscioso episodio è da attribuirsi al provvedimento di clemenza che ha messo in libertà quel violento. Tutto chiaro e semplice. Ma è davvero così semplice? No, non è così semplice se si utilizza la corretta chiave di lettura per quello che è accaduto. Innanzitutto l’uomo in questione sarebbe comunque tornato in libertà a novembre e, quindi, l’indulto non ha fatto altro che anticipare di soli tre mesi quello che, con ogni probabilità, sarebbe comunque accaduto. In secondo luogo la domanda fondamentale che avrebbero dovuto porsi i giornalisti è la seguente: “Durante la carcerazione, quest’uomo è stato seguito da qualcuno? C’è stato qualche psicologo o qualche educatore che ha parlato a lungo con lui e si è accorto dell’odio e del rancore che covava dentro di sé? C’è stato qualcuno che ha cercato di farlo sfogare verbalmente, di farlo ragionare, di fargli cambiare idea? C’è stato qualcuno che, accortosi della sua sofferenza interiore e della sua determinazione a vendicarsi, non riuscendo a farlo uscire dalla ossessiva spirale di pensieri distruttivi, abbia perlomeno messo in guardia la moglie e le forze di polizia locali?”. A queste domande si può rispondere con relativa sicurezza: no, non è stato fatto probabilmente nulla di tutto questo. Non è stato fatto niente di quanto prevedono le normative e il regolamento penitenziario. E non è stato fatto perché mancano le figure professionali, quali psicologi ed educatori, e i pochi che ci sono possono dedicare solo minimi brandelli di tempo alla massa di persone affidate loro. Mancano i soldi, mancano gli spazi, manca la volontà politica di fare qualcosa. Così quell’uomo di San Daniele è stato lasciato solo, in una cella sovraffollata a rimuginare il suo rancore, a coltivare il suo odio che cresceva autoalimentandosi, fino al giorno assai vicino in cui, indulto o non indulto, sarebbe comunque uscito. Altro che rieducazione.
È assurdo ed antieconomico rinchiudere una persona in una cella e confidare che si ravveda da sola
Bisognerebbe ringraziare l’indulto che ha portato alla ribalta delle cronache questo episodio esemplare, che forse sarebbe passato inosservato sulle pagine di cronaca locale. Ma sembra che nessuno sia stato in grado di coglierne l’importante messaggio che nascondeva. Tutti si sono fermati solo alla superficie. Eppure l’insegnamento che la società potrebbe trarre da quanto è accaduto in agosto è importantissimo. I detenuti escono dal carcere ogni giorno, anche senza i provvedimenti di clemenza, e spesso escono senza soldi, senza un lavoro, senza una casa a cui tornare, incattiviti dalla detenzione. Come evitare che tornino a delinquere se gli strumenti atti a favorire un loro reinserimento graduale non vengono usati? Come evitare che tornino subito a spacciare o a rubare se non esistono strutture che li aiutino a trovare un lavoro, un pasto caldo e un tetto sotto cui dormire quando vengono scaraventati in strada a fine pena? Come evitare che durante la carcerazione si incrudeliscano, traendo la forza di tirare avanti nei pensieri di vendetta e rivendicazione? Nel corso del Meeting di Rimini dello scorso agosto, il Magistrato di Sorveglianza di Padova, Giovanni Maria Pavarin, ha usato un’immagine molto efficace per descrivere il suo primo impatto con il carcere: Un ospedale pieno di malati abbandonati a se stessi, senza medici né infermieri. Per rimanere nell’ambito della stessa metafora, la lezione che la società e le forze politiche dovrebbero trarre dall’esperienza dell’indulto è che non si possono curare i mali sociali semplicemente rinchiudendoli tra quattro mura di cemento e dimenticandosene. Se si vuole perseguire una maggiore sicurezza, se si vuole ridurre la recidiva, se si vuole attuare il dettato costituzionale che prescrive la rieducazione del reo, bisogna porre maggiore attenzione al carcere. Bisogna investire denaro ed energie. Bisogna portare medici e infermieri in quelle corsie del disagio sociale dove certamente alcuni resteranno comunque “incurabili”, ma molti si potrebbero salvare se si facesse qualcosa. È assurdo ed antieconomico rinchiudere una persona in una cella e confidare che si ravveda da sola. Senza attività costruttive, senza personale preparato e disponibile ad ascoltare e a sollecitare il colloquio, senza una necessaria “convalescenza” dei benefici di legge che aiuti e guidi gradualmente il rientro nella società normale, il detenuto trova solo i muri di cemento a fare da sponda ai suoi rancori e alle sue distorsioni. Muri che rimbalzano questi rancori, amplificandoli in un’eco infinita che non fa altro che rafforzarli, trovando riscontro nei rancori e nelle distorsioni dei compagni di prigionia. E il giorno, inevitabile, in cui questa persona verrà improvvisamente scaraventata fuori, difficilmente sarà migliore di quando è entrata. Sarà incattivita, vendicativa e rivendicativa nei confronti di una vita dalla quale è stata tenuta fuori e che brama recuperare in fretta, costi quel che costi. La lezione che la società avrebbe dovuto trarre da quanto è accaduto nelle scorse settimane è che le emergenze, almeno per quanto riguarda il carcere, si potrebbero evitare governando con più investimenti e più senno la grigia quotidianità. |
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