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Quei reati commessi da detenuti che hanno usato male la loro libertà Storie di “benefici” finiti male. Quando l’orrore della cronaca nera si abbatte come un macigno sul destino di chi sta in carcere
a cura della Redazione
In questi giorni c’è stato un momento in cui noi che stiamo in carcere non avevamo più neppure voglia di aprire i giornali o guardare la televisione: le notizie di apertura erano infatti macigni, storie tragiche di gente che, uscita dalla galera, è tornata ad ammazzare. Poi abbiamo deciso di non nasconderci ma di affrontare con un po’ di coraggio una questione scottante come questa: dove è in gioco il nostro futuro, e il senso che può avere, per la società, accettare un sistema che permette, a chi commette un reato, di scontare parte della pena con un percorso graduale di uscita dal carcere, attraverso i permessi premio prima e il lavoro in regime di semilibertà poi. Le testimonianze che riportiamo cercano di convincere i cittadini “liberi” che questo sistema è buono e giusto, e che i rischi sono pochi, e sono senz’altro meno che non se le persone condannate si facessero tutta la carcerazione in galera e uscissero, alla fine, incattivite, senza più affetti, senza una rete di protezione ad accoglierle. Ma ci piacerebbe, su questo tema, confrontarci proprio con quelli che stanno “fuori” e con le loro inevitabili paure.
Un carcere che punisce e non cura
di Graziano Scialpi, febbraio 2006
Di fronte a delitti commessi da detenuti in misura alternativa, anche in carcere si prova sbigottimento e costernazione. Ma in carcere si aggiunge anche la consapevolezza che, a mo’ di “giustizia riparativa”, qualche tegola si abbatterà sulla testa di migliaia di altri poveracci che attendono da anni di poter trascorrere un week-end con i figli e la moglie o con la propria madre e che mai si sognerebbero di andare ad ammazzare qualcuno. Quando si tratta di gravi fatti di sangue, in fondo, una dura reazione è tanto umana che anche in carcere la si accetta come ineluttabile. E anche chi fa informazione dal carcere è consapevole che, di fronte al dolore dei parenti delle vittime e all’indignazione pubblica, è inutile e forse dannoso argomentare con cifre e statistiche. Ma questa volta una cifra voglio farla: in Italia ci sono migliaia di persone che godono di misure alternative alla detenzione o di benefici (semilibertà, permessi premio eccetera), e solo lo 0,24 per cento commette reati durante queste misure, di fronte a una media del 3 per cento che nel resto d’Europa è considerata “accettabile”. Detto questo, a mio parere, almeno nel caso di Antonio Palazzo, che uscito dal carcere, dove scontava una pena per il tentato omicidio della fidanzata, ha ammazzato qualche giorno fa la sua ex convivente, qualcosa forse si poteva fare. Il nostro sistema penale prevede che il carcere debba anche rieducare, affinché chi termina la pena (e Palazzo prima o poi sarebbe comunque uscito), possa uscire migliore di quando è entrato. Se il sistema funzionasse, fin dal suo ingresso in carcere Palazzo avrebbe dovuto essere seguito costantemente da psicologi, psichiatri ed educatori, che nel corso di incontri frequenti avrebbero forse potuto accorgersi che il suo primo crimine non era un episodio determinato da fattori contingenti, ma nasceva da qualche tipo di “ossessione” o da un disturbo affettivo nei rapporti con le altre persone. Si sarebbe allora dovuto curare Palazzo per cercare di riportarlo alla normalità e di lenire la sua sofferenza, perché, non dimentichiamolo, è stata una atroce sofferenza che l’ha portato a questo esito autodistruttivo prima ancora che distruttivo. E questo intervento avrebbe dovuto essere mirato non a escludere Palazzo dai benefici di legge, ma ad evitare che al momento della inevitabile scarcerazione uscisse con gli stessi disturbi che lo avevano portato a tentare di uccidere. La colpa è quindi degli psicologi ed educatori che avevano in carico Palazzo? No, perché educatori e psicologi sono talmente pochi che in molte carceri passano mesi prima che un detenuto riesca a parlare con l’educatore, che invece della quarantina di detenuti che dovrebbe seguire ne ha in carico magari 300. La colpa non è neppure dei magistrati di sorveglianza, pochi anch’essi, che dovrebbero dare la possibilità di reinserirsi nella società, sapendo che un reinserimento graduale aiuta a diminuire la recidiva. La responsabilità è soprattutto di chi ha costantemente ridotto le spese per le carceri, ha bloccato i concorsi per l’assunzione di operatori e non ha fatto nulla per contenere il numero dei detenuti, vanificando il lavoro quotidiano di quanti cercano di restituire alla società persone migliori di quelle che sono finite dietro le sbarre. |
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