Storia d’amore di Giuseppe e Cinzia

 

Storia d’amore, di miseria, di droga e di carcere, e di figli "travolti" dal disagio dei genitori nella "ricca" provincia veneta

 

Di Giuseppe, luglio 2001

 

C’è voluto un po’ di tempo e parecchia insistenza per convincere Giuseppe a raccontare questa vicenda. Abbiamo dovuto promettergli che l’articolo non avrebbe contenuto indicazioni da cui fosse possibile risalire all’identità della sua famiglia: i nomi ed i luoghi sono quindi di fantasia; i fatti, purtroppo, sono veri.

 

Il 19 marzo, per la Festa del Papà, ho ricevuto questa lettera (mostra, orgoglioso e triste assieme, una pagina di quaderno). È della mia figlia maggiore, l’unica che si è ricordata…

Il foglio è piegato in quattro, e dice: "Caro papà, ti scrivo da scuola. A casa non devo far sapere, ma io non ti dimentico…".

 

Lei verrebbe anche ai colloqui; è sua madre che non vuole e, forse, non ha tutti i torti. Ho fatto soffrire abbastanza tutti loro. Siamo stati bene, per un periodo, ed era quasi un miracolo, perché io e Cinzia uscivamo entrambi dall’esperienza della droga.

Ci siamo conosciuti in comunità a Verona e, appena fuori, abbiamo deciso di sposarci e di andare ad abitare a Treviso, per stare lontani dai "vecchi giri" e costruirci una vita normale. Lavoravamo tutti e due, io muratore e lei operaia, e sembrava davvero che ce l’avessimo fatta. Però dieci anni di eroina non te li scrolli di dosso facilmente, anche se sei disintossicato rimangono conseguenze fisiche e mentali…

Ogni tanto qualche malessere lo sentivamo, così, quasi per prenderci la rivincita sulla vita, in quattro anni abbiamo messo al mondo tre figli: la loro vitalità e salute compensava, appunto, quello che noi avevamo perso.

Cinzia, passando da una maternità all’altra, praticamente smise di lavorare: passava quasi tutto il tempo in casa, tra i bambini da accudire e la televisione, finché le venne un esaurimento e dovette ricoverarsi in ospedale.

Con le rispettive famiglie i rapporti si erano deteriorati nel periodo in cui usavamo la droga e, anche dopo l’uscita dalla comunità, non avevamo tentato più di tanto di ricomporli, per orgoglio, per vergogna, per tanti motivi…

Però adesso mi trovavo in grossa difficoltà, con i bambini, così chiesi aiuto a mia madre e Cinzia fece lo stesso con la sua. Nella nostra casetta ci fu "un’invasione" di suocere agguerrite: i bambini non le conoscevano abbastanza per accettarle dall’oggi al domani, quindi decisi di lasciare il lavoro per un po’ e di rimanere con la famiglia.

Alcune sere, riportando mia madre a Verona, capitava di incrociare qualche "vecchia conoscenza", ma tiravo dritto. Finché, una volta, mi sono fermato… stanco di vivere alle spalle di mia madre, di rivolgermi all’assistenza, di passare da un ufficio all’altro lamentando le nostre disgrazie e mendicando un altro aiuto.

Ho preso un po’ di droga, in "conto vendita", e mi sono messo sulla piazza. Doveva essere la prima e l’ultima volta, tanto per mettere assieme un po’ di soldi, con cui tirare avanti fino a che mia moglie si fosse rimessa. Invece la storia è proseguita, anche perché quando hai l’eroina tra le mani è quasi impossibile evitare di usarla, se già hai fatto una volta questa esperienza.

Con Cinzia cercavo di non farmi vedere, quando ero "fatto", ma è impossibile ingannare a lungo chi è stato "tossico", su queste cose, e poi circolavano troppi soldi, in casa, perché non nascessero dei sospetti.

 

"O smetti subito, oppure prendo i bambini e vado da mia madre"

Un giorno mi dice: "O smetti subito, oppure prendo i bambini e vado da mia madre". Naturalmente le ho risposto che smettevo subito, poi glielo ho promesso e giurato tante volte, ma non ci riuscivo; finché lei se ne andò davvero, portando con sé i bambini.

Rimasto solo, ricorrevo sempre di più all’eroina e cominciai a spacciare direttamente in casa, dimenticando ogni forma di prudenza. In quella maniera non potevo durare a lungo, infatti dopo quattro mesi mi arrestarono.

Ero stato in carcere per due volte, in precedenza: erano state detenzioni brevi, la prima di sei settimane e la seconda di cinque mesi, e poi avevo ottenuto i "domiciliari". Ma questa volta era diverso, perché mi accusavano di essere un "boss" dello spaccio e rischiavo di prendere dieci o quindici anni, a meno che… collaborassi.

Non ero un boss, ero soltanto un disperato, però non mi sarebbe mai passato per la mente di "fare il pentito" (che è una cosa molto diversa dal pentirsi). C’era solo un motivo di preoccupazione ed era rappresentato da Cinzia e dai bambini: mi mancavano troppo ed io mancavo a loro, almeno così mi figuravo.

Cominciai a scrivere a mia moglie: ogni giorno le spedivo una lettera, anche se lei non rispondeva mai. Dopo un mese di inutili insistenze le mandai a dire, tramite l’avvocato, che almeno mi facesse sapere come stavano i bambini e poi non l’avrei più disturbata.

Il giorno seguente l’avvocato torna a farmi visita e mi racconta che Cinzia non ha mai ricevuto le lettere; sospetta le abbia prese sua madre, evidentemente perché vuole evitare che il rapporto tra noi due riprenda: lei aspettava con ansia di avere mie notizie…

Otteniamo il permesso per i colloqui. All’inizio i bambini non vengono ed è un bene, perché abbiamo tante cose da chiarire e gli incontri sono abbastanza movimentati, tra litigi, pianti e abbracci.

Le spiego subito la situazione giudiziaria in cui mi trovo. Voglio che decida anche lei, è giusto, se pensiamo di poter avere ancora un futuro insieme: basterebbe raccontare al magistrato tutto quello che so per ottenere una pena inferiore ai quattro anni e uscire presto in affidamento, per tornare a fare il marito e il padre…

Il mondo della droga lei l’ha conosciuto bene, sa cosa significa l’infamità e approva la scelta di "mangiarmela" (la condanna più pesante, N.d.R.); scelta, comunque, già maturata per conto mio, ma ora rafforzata dal suo consenso.

Alla famiglia penserà lei, mentre sono dentro… e poi non si tratterà di molto: un anno, al massimo due, finché arriva l’affidamento. Vuole andarsene da Verona, perché lì è bruciata, oltre a tossici, ex tossici e gente del Ser.T., nessuno la saluta più. Anche con sua madre il rapporto si è fatto difficile, da quando viene a trovarmi in carcere.

Si trasferiscono in un paese di campagna: oltre ai bambini c’è sua sorella minore, con l’aiuto della quale avvia un piccolo laboratorio di sartoria e riesce finalmente ad avere amicizie e frequentazioni normali. Una volta alla settimana parte, da sola, e viene a farmi visita. Solo sua sorella sa che io sono in carcere, per tutti gli altri, compresi i bambini, mi trovo all’estero per lavoro.

Passa un anno e il desiderio di rivedere i miei figli diventa insopprimibile, ne parliamo ed alla fine convinco Cinzia a portare con sé almeno il più piccolo, che quasi non mi conosce. Ha poco più di due anni e non sa cosa significa la parola "carcere", per lui questo è un grande ospedale, dove il papà si sta curando per una malattia presa lavorando all’estero… quando torna a casa, può così raccontare ai fratelli una versione compatibile con ciò che loro credono.

Tenere in piedi questa finzione è faticoso, anche per me, in un’ora di colloquio, posso immaginare quanto lo sia per mia moglie.

 

I problemi iniziano quando, tra i vicini ed i conoscenti, comincia a circolare la voce che io sono appena uscito dal carcere

Poi arriva una fortuna insperata, esco in scadenza termini, sono libero! Il primo mese è fantastico, passo tutto il tempo a giocare con i bambini e loro sono felicissimi di vedermi finalmente "guarito"…

I problemi iniziano quando, tra i vicini ed i conoscenti, comincia a circolare la voce che io sono appena uscito dal carcere, che sono un "drogato", e via dicendo. Ci evitano sempre di più, mentre le chiacchiere ingigantiscono le mie colpe il laboratorio perde tutta la clientela. Alla fine devono chiudere, mia cognata torna a Verona io mi metto a lavorare a giornata come facchino, manovale, lavapiatti; tutto va bene, quando si devono trovare i soldi per allevare tre bambini.

Con le difficoltà economiche arrivano i malumori, litighiamo spesso e, una sera, i vicini sentendoci urlare chiamano i carabinieri. Finisco in caserma, dove mi intimano di trovare un lavoro stabile, altrimenti ci fanno togliere i bambini.

Il lavoro lo trovo, in un’impresa edile del paese, ma questo non basta ad evitare che l’assistente sociale arrivi a casa nostra ad interrogare Cinzia. Lei, ingenuamente, le descrive tutti i nostri guai e l’assistente prende nota di tutto…

La settimana seguente deve tornare: il giorno fissato per l’appuntamento non vado al lavoro, quando arriva la affronto sulla porta e le dico di andarsene, perché non abbiamo bisogno di lei. Se ne va, ma dopo mezz’ora torna, accompagnata dai carabinieri.

Mia moglie si mette a piangere, per fortuna la bambina è a scuola ed il secondo figlio è all’asilo, c’è soltanto il più piccolo, che spaventato si rifugia in camera da letto. Alzo la voce, spintono un po’ i militari e finisco ammanettato, quindi di nuovo in carcere con l’accusa di "resistenza".

Il G.I.P. non convalida l’arresto e dopo tre giorni esco ma, quando torno a casa, trovo ad aspettarmi il titolare dell’impresa edile presso la quale lavoro. Mi fa una paternale interminabile e mi avverte: alla prossima che combino sono licenziato! Se perdo quel lavoro perdo anche la famiglia, lo so perfettamente.

Cerco di rigare dritto che più non si potrebbe, da casa al cantiere e dal cantiere a casa, ogni giorno della settimana. Ma in famiglia l’atmosfera è sempre più tesa, Cinzia si lamenta spesso della nostra povertà: non possiamo permetterci "questo" e "quello", come invece fanno tutte le famiglie "normali"…

Anche sul lavoro vedo cose che non mi quadrano, il titolare si assenta spesso, ad una certa ora del pomeriggio: mi nascono dei sospetti ed un giorno lo seguo, scoprendo che si incontra con mia moglie… Torno al cantiere e, quando lo vedo arrivare, gli mollo un pugno in faccia.

Vado a casa, Cinzia evidentemente è già avvertita che li ho scoperti, perché non dice una parola, mentre preparo una borsa con la mia roba.

A cosa sono servite le fatiche e le rinunce che ho fatto? A ritrovarmi solo e senza un soldo, malmesso di salute, trentacinque anni e niente a cui aggrapparmi per poter sognare una vita meno desolata.

Mi rimane una sola cosa da fare, tornare a Verona, sulla piazza, e vivere "alla grande", finché dura… È durata tre anni, anche più di quanto immaginassi, poi è arrivato il momento della resa dei conti, con la giustizia e non solo, perché mi sono anche ammalato gravemente.

Alcuni mesi fa ho divorziato, all’udienza mi hanno portato in manette, e lì ho rivisto Cinzia, dopo sei anni. Vive con il mio ex datore di lavoro, sembra siano felici…

Vorrei poter rivedere anche i miei figli, ma ho paura che non mi sarà più possibile; in tutto ho condanne per diciassette anni e la salute peggiora sempre. Ho chiesto che vengano al colloquio accompagnati da mia madre, ma il permesso non mi è stato concesso, perché Cinzia si oppone.

Mi chiedo soltanto se, oltre ai doveri a cui, a suo tempo, sono stato ripetutamente chiamato, non abbia anche qualche diritto, come padre di questi bambini.