Fuori ho lasciato tre figlie che sono additate come le “figlie del detenuto”

 

Ma qui a Padova a colloquio almeno posso abbracciarle, essere abbracciato, permetter loro di muoversi

 

di Gianfranco Gimona, dicembre 2004

 

I freddi dati statistici ci dicono che se non si riesce a ricomporre la frattura tra padri detenuti e figli, anche i figli sono destinati a vivere situazioni di disagio che possono diventare pericolose, se si tiene conto di quella “orribile” ricerca che dice che il 30 per cento dei figli di detenuti è destinato a sua volta a finire in carcere. Il rapporto tra genitori detenuti e figli è scandito da una serie di domande e di risposte che esprimono un disagio indefinibile, che inizia con il carcere e non si sa quando finirà. Il figlio chiede al padre: “Quando vieni a casa?”; il padre si fa assalire da mille dubbi: “Non credo di voler stare nuovamente lontano da mio figlio per tornare in carcere, una volta terminata quest’esperienza. Ma sarà bastata la pazienza di mio figlio?”; la moglie va a colloquio e racconta: “In paese non ci salutano più da quando stai dentro, i bambini a scuola evitano i nostri figli, la banca mi impone di rientrare con il fido, non mi rinnovano il contratto d’affitto di casa”.

Chi non si riconosce in queste ansie, in queste emozioni? Uomini abituati a vedere i problemi, ad affrontarli e a risolverli in prima persona invece di scansarli, uomini sui quali la famiglia poteva contare sempre, si ritrovano a essere invece impotenti e a dipendere totalmente dagli altri.

E io?  Ora anch’io sono qui, anch’io con questi problemi. Mi sono costituito dopo diversi anni di latitanza all’estero quasi sette mesi fa, sei anni devo scontare. Ora sono qui. Impotente. Non c’è avvocato, magistrato, amico che mi possa aiutare, né dare una mano a coloro che più amo a uscire da questa situazione. Non ho nemmeno qualcuno a cui confidare questa mia croce, non lo posso fare con le persone che mi vogliono bene, altrimenti, penso, darei loro ulteriori motivi di sofferenza. Non ho nessuno qui, nemmeno un prete con cui chiacchierare, mi verrebbe da dire ricordandomi di una vecchia canzone di Celentano: poveraccio anche lui, il cappellano, solo, con settecento detenuti con problemi anche più gravi dei miei.

Sono un “turista”, come nel gergo carcerario si definisce il detenuto che non ha a che fare con il mondo della delinquenza, che in carcere c’è finito per la prima volta, un turista anche se di turistico il posto ha solo una cosa: che ti costringe a vivere in un ambiente nuovo e staccato da tutto e tutti. La distinzione però sta nel fatto che non sei tu a staccare dal mondo, bensì gli altri a staccare da te!

Ora sono qui. Impotente.

Vedo i problemi che fuori si moltiplicano, le sofferenze dei miei cari, di mia moglie, delle mie tre figlie in particolare… Ho lasciato un posto di lavoro in una piccola azienda che mi gratificava, un posto che ritroverò quando uscirò, così almeno mi ha detto il titolare, che però, nonostante le diverse lettere che gli ho spedito, non m’ha ancora risposto. E se tanto mi dà tanto… Ho lasciato i genitori, per i quali l’onestà è uno dei fondamenti della vita, mio padre in particolare che, sicuramente anche a causa di questo continuo stress, è stato vittima di tre attacchi d’ictus nell’ultimo anno.

Ho lasciato una moglie, diversamente abile, che con il suo stipendio d’impiegata statale part-time deve mantenere, oltre a tre figlie con tutto quello che ciò significa, in fatto di spese, e soprattutto di responsabilità, adesso anche un marito. Una donna che per causa mia ora conosce la solitudine, l’emarginazione anche da parte di alcuni dei suoi cari. Ho lasciato tre figlie, che sono additate come le “figlie del detenuto” a scuola e all’asilo, e che inevitabilmente portano le conseguenze anche dello stravolgimento delle notizie fatto da tanta  stampa locale, al punto che una è in terapia presso uno psicologo. Come pensare di poter educare tre ragazzine che ti vedono solamente una volta al mese, che soffrono a causa del disagio che devono sopportare, che ti chiedono di aiutarle? Che rapporto intimo, profondo puoi avere con loro, se non possono confidare le loro speranze o il loro dolore a quella che dovrebbe essere una figura “onnipresente” nella loro vita, che invece a malapena conoscono, in particolar modo la più piccina?

 

Qui almeno sono “un po’ fortunato”

 

Nonostante lo sconforto che porto nel cuore, che qualche volta mi sembra che rasenti l’apatia, mi reputo però da un certo punto di vista fortunato, e questa convinzione mi risolleva. Certo, avrei potuto trascorrere il mio periodo di detenzione in un carcere nei pressi del mio comune di residenza, beneficiando (e facendo beneficiare i miei cari) di due colloqui settimanali invece di uno al mese, visto che ora disto quasi 400 chilometri da casa. In compenso a Padova gli incontri si svolgono in una sala appositamente preparata, dove posso abbracciare ed essere abbracciato dalle mie bambine, tenerle in braccio, permetter loro di muoversi; non come nel carcere vicino a casa mia (dove sono rimasto rinchiuso un breve periodo in attesa di essere trasferito qui), un budello di stanza, che fungeva da sala colloqui, sovraffollato, sporco, maleodorante, diviso da un bancone freddo che non ti permetteva nessun contatto fisico.

Qui certo le celle sono sempre sotto chiave, a parte i momenti in cui si va all’aria o a una attività (dato che, purtroppo, o sei impiegato in una attività o vai all’aria, le due cose sono in alternativa), ci si sente veramente ristretti rispetto a quell’altro carcere dove le celle sono costantemente aperte, e quindi si può girare tutto il giorno da una cella all’altra fino a sera. In compenso però qui la cella è seminuova e la devo dividere solo con un altro compagno di sventura, non con altri 8/9 dove lo spazio previsto era originariamente per 4. Così le risse, gli atti di violenza, i conflitti sono decisamente rari.

Sì, sono almeno un po’ fortunato. Quasi subito ho trovato un impiego come volontario, qui in redazione, con persone che coltivano interessi simili ai miei. Fortunato, dato che io ho uno scopo preciso, visto che devo curare le rubriche sugli affetti, che secondo me sono tra le più belle, umane, immediate. Quelle alle quali si rivolgono sia detenuti/e che gente da “fuori”, angoli nei quali la politica, l’appartenenza ad un ceto sociale non hanno rilevanza, spazi che mi permettono di mantenere vivi i contatti con le “due realtà” del dentro e del fuori, soprattutto con i sentimenti, col cuore delle persone.

Un po’ fortunato perché quando torno in sezione, dove mi sono ambientato quasi subito, sono ben accetto. Mi viene facile mettere in comune le mie capacità nello scrivere/rispondere a magistrati, avvocati, associazioni per conto di quelli che non lo sanno fare perché sono stranieri, o perché hanno poca dimestichezza con la scrittura, o insegnare un po’ di aritmetica a chi non ha avuto le mie stesse possibilità. E poi so che la famiglia che tanto mi manca, fuori mi aspetta, ed è un privilegio di cui non tutti possono godere. E ancora, ho una pena relativamente breve, se paragonata a quelle di altri reclusi che sul loro certificato di detenzione alla voce fine pena trovano scritto MAI, o una data comunque lontanissima nel tempo.

Ed è una piccola fortuna anche essere sano, fisicamente e psicologicamente, “compatibile” al regime carcerario, ammesso che si possa essere compatibili con la galera, ma tanti altri purtroppo patiscono anche questa pena, di non reggere, con il corpo e con la mente, la detenzione, e i numeri relativi ai suicidi in carcere parlano chiaro. Ma forse sono solo un inguaribile ottimista, e anche quando umanamente nulla mi fa vedere la positività di questa vita, quando mi viene meno tutto, una cosa almeno riesce a risollevarmi, la mia fede.