Una storia come tante di tanti anni fa

 

Un ragazzino che vive più sulla strada che in casa, e si ritrova presto in un carcere minorile. Oggi, di storie simili ne succedono ancora, ma i protagonisti sono sempre più spesso ragazzi tunisini, albanesi, rom

 

Di G. D., ottobre 2000

 

Tutto ebbe inizio in un mese d’autunno di tanti anni fa. Una tiepida mattina di un giorno qualunque nel giardino di una piazza, seduto sulla spalliera di una panchina con i piedi appoggiati al sedile, assorto nei miei pensieri… ero poco più che un bambino, ma di problemi ne avevo parecchi, non avevo soldi, né un letto caldo per dormire, e la fame cominciava a farsi sentire.

Questa condizione era la conseguenza di un disagio all’interno della mia famiglia, che durava da sempre, per quanto io ricordi. E come forse avrete capito, ero rimasto solo. Osservavo i veicoli transitare sulla strada di fronte: uno di questi mezzi era un pulmino dei carabinieri, ed ecco che gli occupanti mi guardano, poi segnalando con la freccia tornano indietro, dirigendosi verso di me. Io non faccio una piega, all’epoca non avevo nulla da temere! I carabinieri si fermano proprio davanti a me, spengono il furgone, scendono: il maresciallo si avvicina e mi chiede di fargli "visionare" i documenti. Io rispondo che non li ho e non ho neppure l’età per farmi la carta d’identità. Ma lui vuole conoscere a tutti i costi il mio nome, ed io allora gli fornisco a voce le mie generalità. Il maresciallo, non soddisfatto, mi ordina: "Devi venire in caserma con noi".

Io gli rispondo: "Un attimo, prendo la bicicletta e vi seguo". Non sono d’accordo. Uno mi afferra per un braccio e mi spinge nel furgone, borbottando che alla bicicletta ci pensano loro.

In caserma insisto per sapere cosa sta succedendo, non ottengo risposta… solo qualche minaccia; mi dicono chiaramente di lasciarli lavorare in pace, altrimenti sarebbero costretti a picchiarmi. In quel momento ricordo che ebbi paura, e mi resi conto che dovevo starmene zitto. Li assecondavo mentre compilavano la mia scheda segnaletica (impronte, fotografie, etc…) ero impotente, indifeso e confuso, ma una cosa l’avevo capita, sapevano chi ero e cercavano proprio me.

Dopo aver compilato dei documenti, mi fanno risalire sul solito pulmino, salgono anche loro, uno alla mia destra e uno alla mia sinistra, ed un terzo al posto di guida. Ci avviamo in direzione del casello autostradale. Non dimenticherò mai quel giorno, ero impaurito e non sapevo dove mi stavano portando, e non mi sarei più azzardato a chiedere spiegazioni. Mi ero comunque rassegnato, non potevo cambiare la situazione, e quelli non sarebbero certo tornati indietro.

Circa un’ora dopo, comincio a vedere il mare a destra e a sinistra; so dove sono, conosco il luogo, c’ero già andato in precedenza. Venezia - piazzale Roma. Ci fermiamo, scendiamo ed aspettiamo un po’ vicino all’acqua. Un motoscafo viene a prelevarci, ci saliamo io e due carabinieri. Il viaggio in motoscafo è stato brevissimo: scende uno dei carabinieri, bussa ad un grande portone di legno, aprono ed entriamo.

 

Nella casa correzionale per minori

Quel vecchio stabile sembra un monastero, e credo che lo fosse in tempi precedenti: un cortile con pavimento in pietra a grandi lastroni, due pozzi agli angoli, e tutto intorno un porticato con colonne, il tutto immerso in un silenzio tombale "troppo tranquillo".

In un angolo c’è un’imponente rampa di scale in marmo; saliamo e ci troviamo in un lungo corridoio con molte porte chiuse. Poco dopo esce un signore grande e grosso (saprò più tardi che era il direttore), questo omone senza parlare mi fulmina con una severa occhiata e rientra nell’ufficio da dove è uscito.

E’ ormai pomeriggio, sono ancora seduto su una panca situata in un lato di quel corridoio, mi si avvicina un uomo anziano, di sicuro l’ha mandato qualcuno. Non si presenta nemmeno, mi rivolge subito una domanda: "Hai mangiato?", io rispondo di no! Mi invita a seguirlo, e così faccio. Scendiamo al piano terra, lui entra in cucina ed esce quasi subito con una forchetta in una mano ed un piatto di pastasciutta nell’altra. A quel punto io mi siedo, un po’ per educazione, ma non avevo più fame. Assaggio comunque il cibo, constatando che oltre ad essere freddo, fa anche schifo. L’uomo continua ad incitarmi a mangiare, dicendomi che devo nutrirmi, lo accontento, ingerisco tutto a fatica. A pranzo ultimato, mi accompagna ai piani superiori, esattamente nel dormitorio: uno stanzone grandissimo con circa quindici "posti letto". Mi indica una branda, ci sono le lenzuola e una coperta; mi dice: "Preparati il letto, dormirai qui" e se ne va. Io obbedisco, oramai avevo capito in parte la situazione, non sapevo per quanto, ma in quella specie di convento ci dovevo restare, era tutto chiaro.

Gli altri ragazzi presenti si dimostrano subito cordiali e disponibili, si offrono di darmi una mano a preparare il letto, mi chiedono da dove vengo, il motivo per cui mi trovo lì. E su questo particolare io stesso non conosco la verità. Mi mettono allora al corrente di cos’è quella struttura e come funziona (prima era un carcere minorile, e da poco era stato trasformato in una casa correzionale per minori). A fianco del nostro stanzone ce n’è uno uguale, entriamo lì, la prima cosa che si nota è l’ordine e l’assenza di occupanti. I miei accompagnatori mi spiegano che gli occupanti stanno fuori per il lavoro, e rientrano a ora di cena.

Gli ospiti in questione sono una categoria diversa dalla nostra. Noi siamo, pare, in osservazione per un periodo di un mese. Loro, internati fino al diciottesimo anno d’età: probabilmente restavano lì per il semplice motivo che non avevano un posto dove vivere, e quindi nessuno si prendeva cura di loro. L’istituto, in questo caso, provvedeva ai bisogni necessari e ad una adeguata educazione, in sostituzione della famiglia. Si sono in un certo senso salvati dal carcere, quello vero!

Intanto è giunta l’ora della cena, suona la campana, scendono tutti. Io li seguo, entriamo nel refettorio. Quasi tutta la giornata si svolge in questi spazi "dormitorio e refettorio". Quando si é così giovani, di solito si tende a socializzare, comunicando facilmente. Il passo è breve per trasformare un dialogo in amicizia, e così, anche per conoscerci meglio, si parla di noi, dei nostri luoghi d’origine, dei nostri amici, delle nostre famiglie. Confrontando le situazioni, mi accorgo subito che tutti hanno un problema in comune: il disagio in famiglia, ne parlano con tristezza e non dicono tutto, forse si vergognano, non trovo spiegazioni diverse.

Alcuni di quei ragazzi sono lì perché hanno commesso reati, altri vengono mandati in osservazione dopo essere stati scarcerati da un carcere minorile, altri sono solo scappati di casa, ed altri ancora sono indesiderati dai famigliari: internati per volere di questi. Un miscuglio di casi e di motivazioni contrastanti. Stiamo ancora chiacchierando, per la maggior parte i ragazzi si vantano delle loro imprese. Ora non so dire se quelle erano tutte verità, ad ogni modo mi ricordo che le persone venivano valutate soprattutto in base alla gravità del reato o al furto più redditizio. Io in questo caso non avevo niente da raccontare in merito, fino a quel giorno non mi sarei mai nemmeno sognato che, per la mia sopravvivenza, sarei stato costretto ad arrivare a soluzioni del genere.

Intanto è ora di dormire, in stanza con noi riposa anche un assistente, che si è costruito una specie di stanzetta, utilizzando i nostri armadietti e creandosi così un po’ di intimità. Al mattino ci svegliano con la solita campana: un veloce lavaggio e si scende per la colazione. L’assistente non c’è già più… Lui passa solo la notte con noi, al mattino se ne va presto.

L’organico del personale mi pare che fosse così composto: un direttore, una segretaria, una cuoca tuttofare, due assistenti ai dormitori, un insegnante di educazione fisica (un’ora ogni 10 - 15 giorni), un’altra specie di insegnante (questo l’ho visto solo un paio di volte, durante il tempo della mia lunga permanenza in Istituto: portava due tavole di Pongo e noi modellavamo delle ciarlatanate), ed una psicologa, due giorni al mese.

Passati quindici giorni circa, mi chiama la psicologa per un colloquio. Mi formula alcune domande, quasi tutte riguardanti la famiglia; mi chiede di disegnare una pianta della casa e le figure dei miei genitori, poi mi mostra dei cartoncini con delle macchie e mi chiede cosa ci vedevo: non ricordo quale risposta le ho fornito. Dopo il colloquio con questa dottoressa cambia il programma. Al pomeriggio possiamo uscire ed andarcene in giro per la città, anzi provvedono a farci avere un po’ di soldi (150 lire) che spendiamo quasi sempre per comperare le sigarette. Una passeggiata di tre ore circa, e ogni tanto qualcuno se ne va. Altri si fanno beccare a rubacchiare, e così cambiano subito il domicilio con trasferimento coatto al carcere minorile. Non ho mai capito l’utilità di questa osservazione; in pratica consisteva nel vivere così circa un mese, due colloqui con la psicologa, e poi te ne tornavi da dove eri venuto, senza un programma, una continuazione, un consiglio. Tutto finiva così.

La mia osservazione invece è durata per tutto l’inverno, e non mi é dispiaciuto… se mi avessero mandato via dopo un mese, non avrei saputo dove andare ed il freddo un po’ mi spaventava, soprattutto di notte. Durante la mia permanenza, un giorno, vedo la mia mamma. Stava entrando nell’ufficio del direttore. Io ero così felice! Pensavo: "Forse é venuta a prendermi". Invece é uscita, ci siamo salutati e se n’è andata. I suoi occhi luccicavano, era triste; mi è dispiaciuto molto vederla in quello stato: mi sentivo in qualche modo in colpa, non sono mai riuscito a cancellare dalla mia mente quel ricordo.

Poi è arrivato Natale, e molti di quei ragazzi lo hanno festeggiato in famiglia. Avevano ottenuto una specie di permesso-premio, su richiesta dei genitori. Io, e qualche altro ragazzo, siamo rimasti in istituto tutta la mattinata, ed al pomeriggio ci siamo rintanati in un cinema parrocchiale.

Una mattina il direttore richiede la mia presenza nel suo ufficio. Io vado, busso, entro. Non ho nemmeno il tempo di aprire bocca... mi chiede subito se ho un posto dove andare. Io gli rispondo di sì! Vado a casa… a questo punto mi consegna un biglietto ferroviario, mi saluta. Da quel momento ero libero di andare dove volevo. Decido di andare a casa da mia madre.

Arrivato a destinazione, mi presento davanti alla porta, suono il campanello con insistenza, ma non risponde nessuno. Una vicina di casa mi vede e mi informa che mia madre non abita più lì. Non so più cosa fare e cosa pensare, ci rimango malissimo, mi chiedo come mai non ha provveduto a farmi sapere del trasloco. Decido di cercarla, e di rivolgermi a quei miei compagni che avevo conosciuto in istituto: sapevo bene come trovarli, loro erano in giro già da qualche mese, ma avevamo mantenuto i contatti scrivendoci. Chiedo un passaggio con l’autostop e li raggiungo. Vivo male, alla giornata, dormo dove capita; ad ogni modo mi unisco al gruppo.

Si rubacchia soprattutto per mangiare, spesso il bottino è proprio la "materia prima", il cibo; qualcuno di noi sa anche portare l’automobile: la rubiamo solo per ripararci dal freddo notturno. A volte anche per farci inutili giretti (una vera vita da cani).

Ci vuol poco ad immaginare che così facendo prima o poi si finisce in galera. Infatti vengo catturato con un’auto rubata: ora la carta d’identità ce l’avevo, e quindi mi portano direttamente al carcere minorile, un ambiente squallido e violento. Conosco buona parte dei ragazzi reclusi, sono praticamente gli stessi della casa di correzione.

E’ un carcere a tutti gli effetti, solo che gli occupanti sono tutti minorenni, e gli agenti di custodia operano con abiti borghesi. Per il resto dominano le solite regole: omertà, disprezzo per alcuni tipi di reato e di persone, rispetto per altre, etc…

Molti di quei reclusi si impongono comportandosi violentemente contro i compagni più deboli, altri subiscono. La giovane età, una specie di esaltazione, l’ignoranza causata dalla situazione giustificano in parte un comportamento che è a dir poco irrazionale; purtroppo non si può pretendere saggezza, comprensione ed altri buoni sentimenti da chi è costretto a vivere in un simile contesto, e soprattutto a quell’età.

Io comunque ho imparato presto a farmi rispettare, non ero più il ragazzo timoroso della casa di correzione; in poco tempo sono cambiato molto, mi chiudo spesso in me stesso, comunico con pochi, e non parlo più del necessario. Sono sempre nervosissimo, basta un nonnulla per farmi scattare come una molla. Non disturbo il prossimo, quindi non voglio e non cerco problemi, e forse grazie a questo mio comportamento ho evitato di farmi calpestare: tutti mi lasciano in pace, in qualche modo mi rispettano.

 

Il carcere è diventato così la mia seconda casa

In carcere non sono stato trattenuto per troppo tempo, un tempo sufficiente però per dare un svolta totale alla mia vita. Sono uscito di lì completamente trasformato nel corpo e nello spirito. Nel corpo perché mi sono riempito di tatuaggi così da sembrare un carta geografica. Nello spirito, perché ora sapevo cosa volevo e di cosa avevo urgente bisogno, quella condizione mi aiutava in qualche modo a maturare precocemente.

Per risolvere i miei problemi dovevo monetizzare, sapevo come procurarmi il denaro e conoscevo le persone che mi avrebbero aiutato a realizzare questo progetto.

Era passato del tempo, ora i miei amici e compagni erano più grandi di me, qualcuno era anche maggiorenne, dormivo in albergo, mangiavo al ristorante, possedevo un mezzo per i miei spostamenti, vestivo alla moda, fumavo Marlboro, vivevo dignitosamente, conoscevo tante ragazzine e potevo permettermi di portarle in discoteca, al lago e anche al mare (non sempre!). Questo, chiamiamolo benessere, mi stava comunque portando alla rovina: per soddisfare i miei capricci, vizi e bisogni, rischiavo sempre di più, ormai avevo scambiato quel vivere di espedienti per un’attività come un’altra, dal punto di vista morale "viaggiavo su questa linea".

Il carcere è diventato così la mia seconda casa. Accumulavo reati, processi, condanne. I soldi non mi bastavano mai: problemi a non finire. Ho compiuto il diciottesimo anno d’età al minorile, e quindi quello stesso giorno mi hanno cambiato sezione e trasferito al giudiziario insieme a detenuti adulti… e la storia continua, ma per ora ricordo solo che tutto ebbe inizio con il mio ingresso alla casa di correzione. Non ne conosco ancora il motivo e lo scopo, e chi mi ha mandato là. Con questo racconto voglio solo dimostrare che come gestire la nostra vita non sempre è una libera scelta.