Due calci alla diffidenza...

 

Detenuti in "trasferta" per giocare a calcio, ma anche per incontrare comunità esterne sensibili ai problemi del carcere

 

Di Eugenio Romano, febbraio 2000

 

Quanti sono i detenuti che hanno avuto la possibilità, grazie ad una partita di calcio "extramuraria", di uscire per la prima volta dal carcere in permesso? Me lo chiedo mentre a bordo di un pulmino stiamo raggiungendo Monterosso, una frazione di Abano Terme. Alla guida c’è Maurizio Ruzzenenti, il responsabile dell’iniziativa "Carcere e scuola" che dal 1985 con il suo "Progetto Carcere 663" si occupa di far conoscere e quindi di far socializzare giovani studenti delle scuole superiori con i detenuti.

Io sono tra quelli che hanno visto nascere e crescere il progetto di Maurizio; mi ricordo che nel "Campone", il vecchio carcere di Verona (chiamato così forse perché la sua caratteristica principale era quella di avere un immenso cortile dove tutti i detenuti, contemporaneamente, potevano fruire delle ore d’aria ), ho partecipato ai primi incontri di calcio contro squadre di "esterni" portate da un allora più giovane, ma già intraprendente operatore volontario che sarebbe poi riuscito ad organizzare veri e propri tornei di calcio tra detenuti e studenti all’interno delle vecchie mura.

Ricordo il rito della premiazione, era un momento che veniva vissuto con particolare eccitazione da tutti; vincitori e vinti venivano gratificati con tanto di foto, congratulazioni, strette di mano e consegna di medaglie-ricordo da parte di chi, probabilmente, aveva appena tirato un sospiro di sollievo perché il tutto si era svolto senza "incidenti", tranne qualche contusione riportata nel corso delle sempre accesissime partite, disputate su quel rettangolo di gioco che era un misto di sassi sporgenti e avvallamenti. Quello stesso rettangolo che si trasformava in un improvvisato "lido" dopo qualche violento temporale estivo.

Ma, a parte l’ondata di ricordi che mi ha travolto, torniamo al pulmino in compagnia di altri sette compagni di detenzione, con Maurizio alla guida e sua moglie Lucia accanto, e io che ho trovato posto accanto a Lucia e, come passeggero, mi sento leggermente privilegiato.

Il nostro "autista" impreca per la scarsa visibilità provocata dalla pioggia. Finalmente, in qualche modo ci immettiamo nella giusta direzione e arriviamo alla meta. Sul campo ci sono già alcuni ragazzi che, in virtù della loro giovane età, sono pieni di energie, impazienti di giocare, e palleggiano tra loro per scaldarsi. "Ragazzi, sappiamo che si è fatto tardi e che con questo tempaccio in campo c’è poco da divertirsi… se non ve la sentite di giocare non ha importanza, possiamo comunque trascorrere la serata insieme e socializzare tra noi", ci dice uno degli accompagnatori dei nostri avversari.

Nella squadra dei detenuti, iniziano le prime defezioni: Sergio, un "ragazzo" svizzero di 62 anni, ma solido come una quercia, con il pretesto di non avere le scarpe adatte si salva in "calcio d’angolo", Antonio, un altro "ragazzo" che si avvicina inesorabilmente al traguardo del mezzo secolo non ha il cambio per il dopo-partita, però, ci garantisce che con quel simpaticone di Sergio ci inciterà da "bordo-campo"; anch’io potrei, tirando in ballo la mia (ahimé!) non più giovane età, rinunciare, ma stoicamente decido di indossare maglietta e pantaloncini, calzo le mie scarpette bullonate e mi presento in campo pronto a sfoggiare le mie doti di "fantozziano" goleador.

Dopo una breve consultazione con gli organizzatori viene deciso che si disputerà un unico tempo di quaranta minuti e che ci saranno "prestati" quattro giovani giocatori più il portiere. 30 secondi di un improvvisato "stretching" e siamo già pronti, tutti schierati in campo sotto la luce dei riflettori in attesa del fischio d’inizio.

Appena dieci minuti di gioco e sento già i polmoni che minacciano di sprizzarmi fuori dalle orecchie. Mi accorgo di essere un po’ invecchiato quando mi viene fischiata l’ennesima posizione di "fuori gioco"; tutti pensano che quella mia posizione in campo sia una tattica di gioco opportunistico, per intenderci, quella dei "predatori dell’area di rigore"; nessuno sa, invece, che sono già così spompato da non riuscire più a rientrare nella mia metà campo dopo un’inutile e affannosa rincorsa del pallone nell’area avversaria.

Quando per puro caso, dopo uno strano rimpallo, mi capita tra i piedi una palla persa dagli avversari, riesco perfino a segnare un gol, mi esalto e comincio ad atteggiarmi a "fuoriclasse" sulla via del tramonto. Grazie all’apporto dei "prestati", tra i quali c’è un portiere bravissimo, siamo sul due a zero per noi quando (finalmente!) l’arbitro fischia la fine dell’incontro.

 

"Perché sei in carcere?", mi chiede il ragazzo che è seduto accanto a me

Mezz’ora dopo ci ritroviamo tutti nella grande sala di un vecchio cinema parrocchiale dove una lunghissima tavolata è stata imbandita apposta per noi ed è proprio tra una portata e l’altra che l’imbarazzo svanisce gradualmente e cominciamo a sentirci a nostro agio.

Le persone che ci ospitano sono gentili, i ragazzi sono allegri, spontanei, affabili in modo addirittura imbarazzante: tra un "dribbling" e l’altro, tra un "cross" ed un "calcio d’angolo" hanno dato due calci anche a quella giustificata diffidenza iniziale.

Ora sono incuriositi. Quel timore di confrontarsi con persone completamente estranee al loro mondo è sparito e ci coinvolgono nelle loro conversazioni, nei loro scherzi; ci chiamano per nome ed io, lo confesso, mi meraviglio di questa loro capacità nel ricordarseli.

"Perché sei in carcere?", mi chiede il ragazzo che è seduto accanto a me. Temevo che qualcuno mi facesse questa domanda così scontata e diretta e sapevo che quando me l’avrebbero fatta, mi sarei trovato in imbarazzo nel dover rispondere: "E mò, cosa gli rispondo?", dico a me stesso. "Ma non poteva chiedermi cosa ne penso del campionato di calcio? del Napoli che non riesce a tornare in serie A…?".

E’ inutile nasconderlo: mi sento a disagio, so di correre il rischio di veder crollare di colpo tutto il castello di simpatia edificato fino a quel momento; non mi piace, non mi è mai piaciuto essere patetico per elemosinare un po’ di comprensione e simpatia, nonostante tutto, sono dotato di una sincerità che potrei definire "autolesionistica" e non posso far finta di non aver sentito la domanda: "Sono tanti i motivi", gli rispondo. "Diciamo… per semplificare… che sto pagando le conseguenze di tante scelte sbagliate, che non mi trovo in carcere per un errore giudiziario; ne ho combinate troppe e per questo sono considerato un… cattivone!".

Quest’ultima parola la dico accentuando un goffo ammiccamento, mentre con lo sguardo cerco qualcuno che possa in qualche modo salvarmi in extremis da quel dialogo "scivolato" sul personale; mi salvo quando vedo Sergio, seduto due posti alla mia sinistra, e lo apostrofo simpaticamente come faccio ormai da oltre tre anni: "Vecchiaccio…! sei riuscito a telefonare a casa?". "Non ancora… gliel’ho chiesto all’accompagnatore e mi ha risposto che se trova un po' di tempo mi fa telefonare… ma tra poco dobbiamo rientrare; spero che lo troverà questo tempo…!", mi risponde Sergio con il suo caratteristica accento franco-svizzero.

Il ragazzo ormai è distratto dall’argomento precedente ed è incuriosito dal fatto che per poter fare una semplice telefonata dobbiamo affidarci alla disponibilità dell’accompagnatore, allora mi tocca spiegargli che quando usciamo in permesso in tanti non possiamo allontanarci dal gruppo e dipendiamo quindi da come chi ci accompagna interpreta il suo ruolo di accompagnatore, se con severa inflessibilità o con un atteggiamento più amichevolmente "flessibile". Maurizio Ruzzenenti a volte "marca ad uomo" quando accompagna i detenuti all’esterno, e questa marcatura è dovuta al fatto che, in qualche occasione, qualcuno ne ha approfittato per non rientrare in carcere e questo ha condizionato la disponibilità nei confronti dei suoi "affidati" (a non rientrare in carcere da un permesso è meno dell’1% dei detenuti che usufruiscono dei benefici premiali). Lo capisco, ma vorrei dirgli di rilassarsi un po’, altrimenti quelle sei ore di sport e socializzazione diventano motivo di malessere interiore. "Dacci la possibilità", vorrei dirgli ancora, "di dimostrare che siamo persone in grado di apprezzare il tuo impegno sociale e che sappiamo, all’occorrenza, essere responsabili e consapevoli della fiducia che ci viene accordata".

Una cosa è certa, chi decide di approfittare dell’uscita in permesso per allontanarsi definitivamente dal gruppo, lo fa incurante delle conseguenze del suo gesto: sa già in partenza di essere una persona scorretta e proprio per questo lo fa e basta!

La serata è comunque finita bene, dopo i saluti di rito ripartiamo per il carcere, alla portineria poi consegniamo i fogli dei permessi con le nostre foto di riconoscimento: da quel momento siamo di nuovo detenuti. In fila indiana varchiamo la soglia del portoncino di vetro blindato che dal piazzale esterno dei parcheggi immette all’interno dell’area carceraria: tra poco proverò di nuovo quella sensazione di leggera claustrofobia che mi prende sempre poco prima di rientrare nella cella.