I buoni cattivi e i cattivi buoni...

 

"Non bisogna per forza essere malavitosi per provare un sentimento avverso nei riguardi di un delatore… Penso che tradirei me stesso se per ottenere un qualsiasi vantaggio danneggiassi qualcuno e non per questo devo essere accusato di nutrirmi a base di pane e malavita"

 

Di Eugenio Romano, febbraio 2000

 

La disonestà morale può essere annidata in chiunque: quanti sono quelli che ipocritamente si ergono a paladini della rispettabilità riparandosi dietro sottilissimi paraventi di perbenismo?

Nella vita sociale il requisito principale per essere considerato "persona rispettabile" è l’onestà, nelle carceri, luogo dove ci sono persone che hanno perso la propria onestà giuridica, vige la regola della lealtà: chi si comporta lealmente si guadagna quella rispettabilità che è dovuta all’esterno alle persone "giuridicamente oneste".

Spia, confidente, infame, pentito, collaboratore di giustizia, etc.: sono tanti i termini per definire una tipologia di persone che da secoli si sono guadagnate il disprezzo di tutti, quello dei "buoni" e quello dei "cattivi".

In tempo di guerra le spie le fucilavano, io mi accontento semplicemente di provare per loro un sano e legittimo disprezzo. Del resto, non bisogna per forza essere "malavitosi" per provare un sentimento avverso nei riguardi di un delatore, di una persona che, per antonomasia, è detta Giuda.

Senza addentrarmi nel labirinto delle Scritture Evangeliche, ricordo che il Manzoni ambientò "Storia della Colonna Infame" nella Milano del ‘600 devastata dall’epidemia della peste. Quel suo racconto, tratto da documenti storici d’archivio, narrava le vicende patite da quelli che, dopo essere stati segnalati dalle spie dell’epoca, venivano torturati, processati e poi mandati al rogo dai tribunali dell’inquisizione; oggi, a distanza di circa quattro secoli, nulla è cambiato, nelle aule dei tribunali si celebrano spesso i maxi-processi in un clima tipico da "caccia agli untori".

Fino a qualche anno fa, nel gergo comune a tutti, le spie si chiamavano infami, sapevano già che non avrebbero trovato posto tra i detenuti comuni e allora erano loro stessi a chiedere il proprio isolamento sperando in cuor loro di non doversi mai imbattere in qualcuna delle loro "vittime".

Oggi, usando un eufemismo, li chiamano pentiti ma questo non cambia la natura del loro essere falso e gretto; questo termine è stato coniato apposta per loro perché, secondo me, nemmeno i magistrati vogliono avere a che fare con gli infami: preferiscono i "pentiti".

Quando ho letto quello che scrive Francesco Morelli sui codici di comportamento carcerari e sulla mentalità malavitosa, confesso che in un primo momento ho avuto molti dubbi sul fatto che quei testi fossero stati scritti proprio da un detenuto, la prima cosa che ho pensato è stata : "Un detenuto non può aver scritto queste cose, questa è pura e semplice provocazione per aprire un dibattito su di un tema molto delicato".

Ho pensato anche al fatto che qualsiasi cosa avessi detto o scritto in opposizione a quelle posizioni avrebbe relegato me in una ipotetica lista dei cattivi e il mio "antagonista" in una altrettanto ipotetica lista dei buoni.

Rischierò allora di essere considerato un oltranzista che non riesce a liberarsi della propria mentalità malavitosa ed è per questo che voglio premettere che il mio intento non è quello di difendere una sorta di "categoria", sarebbe poco intelligente se lo facessi; sarei un emerito ipocrita se non ammettessi che il mio sogno, come il suo, è quello di riuscire ad allontanarmi definitivamente dai margini della società, per poter poi riconquistare la fiducia di chi forse non crede più in me ciecamente, ma continua a starmi vicino con rassegnazione e abitudine.

Citando vagamente Voltaire, devo dire che pur rispettando l’opinione ed il pensiero del mio occasionale antagonista, non condivido niente di quanto ha scritto, secondo me con enfasi moralistica e moralizzatrice, a proposito dell’avversità naturale della popolazione detenuta nei riguardi dei pentiti e su quanto asserisce sulla cosiddetta rispettabilità più o meno dovuta.

Proprio a proposito di rispettabilità, bisogna precisare che un imbecille rimane comunque tale anche se ha da scontare non uno, ma dieci ergastoli! Non è quindi l’entità della pena da scontare che fa lievitare o diminuire la rispettabilità di un detenuto.  

 

Essere se stessi non significa voler mantenere a tutti i costi un atteggiamento di folkloristica malavitosità

In carcere ben altri sono i requisiti necessari per ottenere il rispetto altrui e non tutti devono per forza coincidere con le capacità a delinquere; una persona che capita in carcere per una serie di circostanze negative o per un crudele gioco del destino, riceve lo stesso rispetto di un qualsiasi "vecchio pregiudicato"; se la persona in questione si comporta con rispetto ed educazione, è ripagato allo stesso modo.

Il requisito fondamentale per ottenere rispetto in carcere è, da sempre, quello di non essere una spia… ma nella vita "esterna", chi vorrebbe avere a che fare con un traditore?

E’ vero che i tempi sono cambiati, che oggi la vita carceraria non è più come quella di alcuni anni fa, me ne sono accorto grazie al fatto che all’interno delle strutture carcerarie sono sempre più numerosi gli operatori volontari che operano per rendere più vivibile l’atmosfera all’interno delle mura; me ne rendo conto ogni volta che ho la possibilità di mettere piede fuori per motivi sportivi o culturali; mentre partecipo in modo più o meno attivo alle varie attività didattiche o di preparazione culturale e professionali che vengono promosse all’interno dello stesso istituto di pena.

Sono tanti gli esempi che potrei citare a testimonianza dei cambiamenti che, è inutile negarlo, sono evidenti; ma per trarre beneficio dalle innovazioni introdotte nelle carceri e tra questi, quelli tanto discussi previsti dalla Legge Gozzini, mi viene chiesto semplicemente di tenere una buona condotta carceraria, cosa che non ho alcuna difficoltà ad osservare, finché non viene calpestata la mia dignità personale...finché mi viene permesso di essere me stesso; senza l’imposizione, sia pure psicologica, di compromessi "poco chiari".

Essere se stessi non significa voler mantenere a tutti i costi un atteggiamento di folkloristica malavitosità; tradirei me stesso se per ottenere un qualsiasi vantaggio danneggiassi qualcuno e non per questo devo essere accusato di nutrirmi a base di pane e malavita.

Mi è capitato, nel corso di questi ultimi tre anni di detenzione, di ripercorrere spesso alcuni episodi del mio travagliato passato; ho maledetto me stesso migliaia di volte per non aver saputo cogliere al volo tantissime occasioni perse per un reinserimento sociale e provo fremiti di rabbia ogni volta che mi sorprendo a fare minuziosi calcoli sulla pena espiata, su quella da espiare e su quella da detrarre in virtù della buona condotta osservata, per poter poi accedere ai benefici previsti dall’Ordinamento Penitenziario.

Sono fremiti di malcelata rabbia che contrastano con un atteggiamento di tranquillità che ostento nei rapporti interpersonali; nel corso degli anni ho imparato a gestire meglio il mio carattere che anni addietro, a causa di una certa impulsività, mi ha provocato parecchi problemi.

Anch’io voglio chiudere definitivamente i miei conti con la giustizia, voglio chiuderli perché mi sono reso conto di aver sprecato i miei anni migliori all’inseguimento di qualcosa che avrei già raggiunto da tempo senza avere la necessità di bazzicare ai margini della legalità.

Questa mia voglia di uscire dall’illegalità è fortissima ma non baratterei mai la mia lealtà per una scarcerazione: se la libertà non ha prezzo, il coraggio di affrontare le conseguenze dei propri errori ti dà un senso di dignità e quella sì che ha un valore inestimabile.

Bisogna distinguere in modo netto il pentimento morale da quello falso e strumentale del pentimento giudiziario: il primo avviene nell’animo, quando si prende coscienza di aver stravolto la propria vita, e ti dà la forza di affrontare con più coraggio, serenità e rassegnazione la pena (giusta o esagerata) che viene inflitta; il secondo, è quello subdolo che permette ad una persona senza un briciolo di onore di riacquistare la propria libertà pagandola il misero prezzo del tradimento.